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I CAVALIERI CHE FECERO L'IMPRESA
2001, regia di Pupi Avati
Scheda: Nazione: Italia-Francia - Produzione: DueA Film, Quinta Comunic - Distribuzione: Twentieth Century Fox - Soggetto: dall'omonimo romanzo di Pupi Avati - Sceneggiatura: Pupi Avati - Fotografia: Pasquale Rachini - Scenografia: Giuseppe Pirrotta - Montaggio: Amedeo Salfa - Costumi: Nanà Cecchi - Musiche: Riz Ortolani - Effetti speciali: Renato Agostini, Danilo Bollettini - Consulenza storica: Franco Cardini - Maestro d'armi: Walter Siccardi - Formato: Color - Durata: 147'.
Cast: Murray F. Abraham, Edward Furlong, Raoul Bova, Carlo Delle Piane, Marco Leonardi, Franco Trevisi, Sarah Maestri, Romano Malaspina, Stanislas Merhar, Thomas Kretschmann, Yorgo Voyagis, Luca Forcina, Edmond Purdom, Loris Loddi, Gigliola Cinquetti.
Trama e commenti: cinematografo.it - mymovies.it - film.spettacolo.virgilio.it - kataweb.it - italica.rai.it - internetbookshop.it - grazia.net - cinefile.biz: «Dopo Magnificat, del 1993, Pupi Avati torna alle atmosfere medioevali con I cavalieri che fecero l’impresa, pellicola tratta da un romanzo dello stesso regista. Nel XIII secolo, subito dopo il fallimento della Settima Crociata, cinque uomini dalle più diverse origini si riuniscono, a causa di un destino guidato da voleri superiori, per ritrovare la Sacra Sindone, occultata a Tebe, in Grecia. I cinque “cavalieri” sono quanto di meno nobile si possa immaginare: un fabbro costruttore di invincibili spade (grazie ad un patto diabolico), il figlio di un ufficiale al seguito del re Luigi IX, un giovane cavaliere testimone alla morte del re, un bandito di strada, un nobile in cerca di denaro. Dopo aver superato innumerevoli ostacoli, i cinque eroi trovano la Sacra Reliquia, e tornano in Francia per consegnarla alla Chiesa; qui però avranno un’amara sorpresa... Progetto ambizioso a cavallo tra rigore storico e fantasy, I cavalieri che fecero l’impresa tenta di portare sullo schermo una storia certamente complessa ma, come spesso accade, finisce per fare molta confusione...».
Plot Summary, Synopsis, Review: IMDb - entertainment.msn.com - movies.yahoo.com - movies.aol.com - hollywood.com - : «In 1272, Crusader knight Simon de Clarendon journeys to Tunisia to see King Louis IX about a lost relic. But the king dies before Simon can arrive. Left to complete his Crusade alone, Simon and his small band of knights travel to the Holy Land on a mission to recover the Holy Shroud, the cloth in which Jesus was buried».
Approfondimenti: Movie Review
Conosciuto anche con i titoli: The Knights Who Made the Enterprise; The Knights of the Quest.
La recensione di Cuccu'ssette su "Terre di Confine"
Il castello delle ombre: La recensione di Vito Attolini
La recensione di Stefano Latorre in "Le altre recensioni" - La recensione di Gaetano Pellecchia in "Le altre recensioni" - La recensione di Tersa Maria Rauzino in "Le altre recensioni"
1) Intervista a Pupi Avati: (Valeria Chiari, dal sito Filmup.com)
Pupi
Avati torna al cinema con un film che ripropone un periodo storico già
rappresentato nel suo "Magnificat". Ma questa volta è soprattutto un
desiderio di trovare una degna risposta mediterranea alla britannica epopea
cavalleresca del ciclo del Graal. La ricerca della Sacra Sindone sparita
misteriosamente e ricomparsa 150 anni dopo, altrettanto misteriosamente, ha
solleticato il suo interesse portandolo a studiare lungamente e
approfonditamente il ricchissimo periodo storico, scrivere un libro
(dall'omonimo titolo, edito dalla Mondatori) e infine gettarsi a capofitto nella
sceneggiatura e nella lunga realizzazione. Ma sentiamo lo stesso regista
raccontarci l'ardua "impresa".
Un vero kolossal il suo film?
Beh sì, mi piace dire che in questo film non ho messo niente da parte, ho
utilizzato il cinema a 360 gradi come strumento narrativo, cosa che per chi
conosce la mia filmografia, non era avvenuta mai in precedenza: i miei film
avevano più a che fare con ricordi, con la ricerca intimista e psicologica dei
personaggi. In questo film, dall'ambientazione al cast, dalla scenografia ai
costumi, dalle musiche agli effetti sonori a tutto quello che è il meccanismo
dell'esercizio della battaglia, c'è tutto il mondo del cinema. Un film
d'avventura in cui gli attori non hanno controfigure e sono ancora vivi ed
illesi soprattutto per la loro grande prontezza di riflessi, che nelle battaglie
e nei corpo a corpo sono stati fondamentali, dal momento che non c'era neppure
una vera coreografia. Le spade del film sono tutte autentiche, costruite da un
mastro spadaio: tutte le armi con le quali i ragazzi si sono trovati a
combattere, con o contro di esse, erano vere, pesanti e pericolose il che ha
reso tutte le azioni particolarmente rischiose.
Vado molto orgoglioso della sequenza finale perché credo che sia riuscita
tecnicamente ed emotivamente, premiando il durissimo lavoro di preparazione: 200
cavalieri umbri, 5 giorni di lavorazione, 4 macchine da presa.
Un
film d'avventura allora, con la A maiuscola?
Sì, con l'aiuto di Franco Cardini, per garantire una verosimiglianza storica a
gran parte della vicenda, ho cercato di fare un film avventuroso, evitando tutti
gli approfondimenti psicologici dei personaggi, che si deducono così solo dai
comportamenti, riducendo i dialoghi all'essenziale. Attraverso l'intrecciarsi di
eventi che conducono questi cinque ragazzi privi di prospettive, frustrati da un
presente che non garantisce loro nulla di eccezionale, ad una opportunità
attraverso la quale riempiono la loro vita, acquisendo così un senso che
precedentemente non aveva, ho cercato di raccontare una storia che avesse
diversi livelli di decodificazione.
Una storia che potesse essere seguita da un pubblico anche ignaro di quello che
è il Medioevo, dei Templari, del mondo cavalleresco delle saghe di Chrétien de
Troyes, quelle del Sacro Graal o le storie sulla Sindone, fruendone solo come
film d'avventura. Allo stesso tempo a seconda della sensibilità e del livello
culturale, questo film si presta anche a delle attenzioni maggiori suggerisce
una ipotesi verosimile riguardo al buco nero della sparizione della Sacra
Sindone, 150 anni, durante i quali la reliquia scompare da Costantinopoli nel
1204 e riappare misteriosamente nello Champagne nel 1356: un lavoro che potrebbe
piacere a chi è informato, stimolandolo ad andare avanti nella ricerca d'una
spiegazione.
C'è molta efferatezza in alcune scene, era necessaria?
Tutto quello che ho messo nel film è assolutamente vero storicamente. Il
Medioevo è uno dei periodi più attentamente analizzati: gli storici francesi
soprattutto hanno fatto uno studio straordinario sugli usi e costumi quotidiani
del periodo. Gli orrori che mostro nel film sono orrori che si vivevano
quotidianamente all'epoca. C'era un efferatezza e una truculenta estrema e già
con Magnificat ne avevo dato numerosi esempi: certamente potevo ridurla, come
d'altronde ho fatto, ma non eliminarla, a meno di rischiare di perdere il senso
e soprattutto la contestualizzazione dell'intera vicenda. E' stato un periodo
indubbiamente violento ma che è riuscito a produrre ugualmente momenti di
altissima poesia e arte: il Dolce Stil Novo, Dante...
2) Intervista a Pupi Avati: (Andrea Piersanti, dal sito cinematografo.it)
"La Santa Sindone - spiega Avati - ha un duplice aspetto: per i non cattolici (ma anche per i cattolici) è in pratica un’icona, per i cattolici, e, quindi, anche per me, è una reliquia. L’unica reliquia che è stata soggetto di indagini, anche scientifiche, accuratissime e che, malgrado gli attacchi, conserva una credibilità intatta. La Sindone è l’elemento principale della vicenda, basata principalmente sull’azione, spesso violenta, nell’ambiente duro e ostico del basso medioevo".
"Ho
deciso di accettare di far parte di un progetto divino e, quindi, di non oppormi
a quello che il progetto divino che mi riguarda porterà nella mia vita, nel
bene o nel male". I cavalieri che fecero l'impresa è l'opera più
ambiziosa mai diretta da Avati (18 miliardi di budget per una coproduzione Rai
distribuita dalla Fox in 150 sale italiane). "Abbiamo fatto tutto quello
che si poteva per promuovere il film - spiega pacatamente Antonio Avati, il
fratello produttore -. Anche la Rai e la Fox si sono impegnate al massimo".
Pupi Avati sorride. "Paradossalmente questo è il mio film più
autobiografico. Forse me ne sono reso conto solo alla fine. Durante le riprese,
e ancora adesso, non riuscivo a sentirmi come uno dei cinque cavalieri. Ma poi,
quando mi sono fermato a riflettere sul significato dell'esistenza di un
progetto divino per tutti gli uomini della terra e che quindi non coinvolge solo
i cinque cavalieri ma anche me... Mi vengono i brividi nel confidarti questo mio
segreto, perché so che sto correndo dei rischi pazzeschi nel confermarlo anche
ad un altro. È una cosa che ho detto solo a me stesso. Neanche mia moglie lo
sa. Era da tantissimo tempo che temevo una cosa del genere. La temevo per me
stesso perché so che mi sono andato a mettere in un grande rischio e che ho
fatto una promessa molto più grande di me, che sono certo non riuscirò a
mantenere. Però vorrei tanto saperla mantenere. Rendersi conto di far parte di
un progetto divino, e accettarlo, è la decisione più grande della mia vita.
Significa voler accettare tutto con una serena consapevolezza. Io non sono
masochista e quindi continuo ad augurarmi il bene, come per l'uscita di questo
film. Ma se dovesse andare male... "Sarete capaci di perdonare il vostro
nemico" ci dice il Signore. Io non ne sono stato capace per 62 anni. Ho
vissuto sempre nell'invidia degli altri, invidiando tutto quello che succedeva,
pretendendo tutto per me. Ma adesso ho capito improvvisamente che comunque
vadano le cose, io faccio parte di un progetto che è più grande di me. Ne sono
terrorizzato perché sono un vigliacco: non so se avrò la forza di essere
coerente, nel bene e, soprattutto, nel male. Ma credo anche di avere finalmente
acquisito l'unica forma di consapevolezza in grado di liberarmi dal mio
egoismo".
Si percepisce infatti un salto di qualità anche nel tuo lavoro. Rispetto
all'altro grande film "religioso" da te diretto, Magnificat
(1993), ne I cavalieri non hai lasciato spazio al dubbio e alle
recriminazioni di fronte al cosiddetto "silenzio di Dio". Anzi, esalti
con determinazione i principi fondanti del cristianesimo: il valore solidale
dell'amicizia, e quindi della condivisione, la presenza costante di Gesù in
tutti i particolari della nostra vita e la "gratuità" delle nostre
"imprese" terrene.
Sì, Magnificat non voleva essere nient'altro che una specie di
sopralluogo in un tempo e in un'area che io conoscevo soltanto a livello
letterario e che cinematograficamente non era mai stata rappresentata
compiutamente. D'altra parte non c'è in Magnificat la volontà di
approfondire più di tanto il rapporto col trascendente. C'è semmai questa mia
necessità di spiegare le ragioni di una cultura, quando improvvisamente questa
cultura esige un dopo. Esige un qualche cosa che la ricompensi dell'ingiustizia
di una vita che più ingiusta non può essere. Quindi in Magnificat se
c'era un tipo di ricerca aveva molto a che fare con questo tipo di
rassicurazione che ognuno dei personaggi in qualche modo chiedeva. La gente di
quell'epoca voleva essere rassicurata perché la vita che viveva era terribile.
E poi Magnificat ha avuto anche una valenza didattica molto forte. Ho
cercato, con spirito Rosselliniano, di trasferire al pubblico quello che andavo
via via scoprendo, da dilettante, nelle letture e nelle ricerche di carattere
bibliografico, letterario e storico. Erano così stupefacenti le cose che andavo
via via scoprendo che dovevo per forza riferirle.
Per
I
cavalieri invece le cose sono andate in maniera diversa?
L'atteggiamento che riguarda I cavalieri è più rassicurato. Ho sentito
la necessità di ridurre la parte di dubbio e di non farne un elemento sul quale
in qualche modo cercare di distinguermi. Io ora sento il dubbio (che tanta parte
aveva in Magnificat) come un limite alla mia fede. La fede mi è stata
data tutta e sono io che non riesco a coglierla nella sua interezza. Il problema
è che sono io che devo imparare a credere. E che Lui è lì ad aspettare. C'è
un luogo, un'ora, in cui è possibile incontrarlo, dove è possibile arrivare
alla fede che è stata di mia madre o delle poche persone autentiche che ho
incontrato nella mia vita. Ai tempi di Magnificat ero anche io in attesa
dei segni del Cielo. Adesso ho capito che i segni non verranno mai. E che sono
io a dover credere comunque, andare all'appuntamento e cercare il luogo dove
avverrà. Mi sono reso conto che quel raggio di sole che traforava i boschi dove
i cavalieri percorrevano la strada di ritorno dalla loro impresa, non era altro
che la luce divina, non era altro che una sorta di protezione divina. Credo che
questa sia stata l'immagine che a un certo punto io ho cercato di produrre e di
replicare ne I cavalieri. E allora, con un film che apparentemente non
parla né della mia famiglia né di me, parlo molto più di me, di quanto non
abbia fatto in altri film.
Il valore dell'amicizia descritto ne I cavalieri che fecero l'impresa
è fortissimo. Nessuno viene lasciato indietro dagli altri, anche il peggiore di
tutti: l'indemoniato.
La chiave è in una sola parola: sempre. Si tratta di un concetto che è
scomparso dalla nostra cultura moderna. Sembra che ci terrorizzi l'idea di non
poter più cambiare idea. Succede anche nell'amore fra un uomo e una donna e nei
rapporti di amicizia. La parola "sempre" è invece una parola che
definisce meglio l'adolescenza, l'infanzia, la giovinezza. Quando tu sei ragazzo
vorresti che quei tuoi amici lo fossero per sempre, vorresti morire per i tuoi
amici. E' tale l'amore che provi per loro, per cui vorresti veramente morire
assieme a loro. Vorresti morire dicendo a loro: "Vi amo cavalieri, e
prenderò tutte le vostre paure su di me". Come dicono i miei Cavalieri
nella scena finale.
Già, la scena finale: un'apocalisse. I cinque cavalieri che si lanciano da
soli contro un esercito di cinquemila uomini armati fino ai denti! Cos'è, una
metafora della nostra vita?
Il mio rapporto è di 5 unità contro 5 milioni; è la solitudine dell'individuo
contro la massa, è la solitudine di colui che prova ad essere qualcosa di
diverso e che si trova contro improvvisamente un bosco di lance e di balestre,
di punte aguzze, tutte a lui destinate. Sembra eccitante, esaltante ma non è
epico: corrisponde invece molto al vero. Quando provi qualche cosa che sia anche
solo un pochino diverso da quelli che sono i canoni di un certo consenso, sei
irriso dal mondo intero e diventi lo scemo del paese. Io sono molto vigliacco e
non ho avuto il coraggio di arrivare a questi estremi. Ma per fortuna c'è chi
questo coraggio l'ha avuto, come il primo San Francesco o lo stesso Jacopone da
Todi. Nella vita dei santi il passaggio all'interno di una diversità molto
palese, e molto provocatoria, è frequente. È in questa solitudine che trovi la
più alta delle conferme e, probabilmente, la più nobile delle ebbrezze.
Quali sono le "imprese" della nostra vita moderna?
Tutto quello che è rivolto agli altri, nella non visibilità. Tutto quello che
noi facciamo rivolto agli altri nell'anonimato più assoluto, nel silenzio più
assoluto. Io credo che le imprese più nobili e più elevate restino ancora
queste.