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di Peter Jackson, 2001
Dopo il film di animazione di R. Bakshi (1978), è arrivata una nuova trasposizione cinematografica, per la regia di P. Jackson, della trilogia di J.R.R. Tolkien. Il signore degli anelli è il primo di tre film (già girati) tratti dalla saga di Tolkien. Va subito chiarito che sarebbe fuorviante leggere il film da un punto di vista che prediliga la fedeltà assoluta all'opera di Tolkien. Le differenze riscontrate non creano sostanziali divergenze tra il significato del libro e quello del film. Un bilancio di come gli scostamenti tra il film ed i romanzi fantasy di Tolkien possano aver inciso significativamente sulla struttura del film (dei tre film) e modificato il significato finale lo si potrà fare quando, sugli schermi, uscirà il terzo episodio. In ogni caso, le differenze tra film e testo letterario sono addebitabili all'ineliminabile diversità di linguaggio fra cinema e letteratura. Nel film si persegue l'obiettivo di dar vita, in circa tre ore, all'universo creato da Tolkien: è questa la chiave di lettura del film. Un obiettivo che è funzionale agli interessi di chi ha speso ingenti capitali per la realizzazione cinematografica della trilogia (che è quindi destinata al più vasto pubblico possibile), all'aspettativa di "evasione" da parte del pubblico ed alle caratteristiche del genere fantasy. Sono questi elementi a condizionare la sceneggiatura e la regia. è a partire da tali premesse che il film mantiene una sostanziale fedeltà al romanzo di Tolkien. Il film si articola intorno ai temi del viaggio - qui più che mai iniziatico - dell'eroe e della della lotta - schematica - tra il bene ed il male, che minaccia un mondo immobile. Ulteriori considerazioni su questi aspetti e su altri quali, ad esempio, l'ambientazione astorica delle vicende narrate e l'aspirazione a perpetuare civiltà immobili, coinvolgerebbero direttamente l'opera di Tolkien. Non è questa la sede opportuna. La regia, dunque, ha il compito difficile di tradurre in immagini e azioni i protagonisti, i luoghi e le vicende della saga di Tolkien. Il film si propone di avvincere, lasciare immaginare, coinvolgere emotivamente lo spettatore. E Jackson ci riesce. Gli effetti speciali, la fotografia, le riprese e la direzione degli attori rispondono al progetto del regista di affascinare e coinvolgere lo spettatore. La regia di P. Jackson è molto abile (solido mestiere) e professionale. Una regia che narra le vicende della "compagnia dell'anello" come un film d'azione e che non cerca chiavi di lettura nuove o personali dell'opera di Tolkien. Quando è stato possibile, Jackson ha anche cercato di evidenziare le sfaccettature psicologiche di alcuni protagonisti, la loro "umanità", evitando di cadere nel ridicolo, rischio più volte sfiorato in diversi momenti del film. I dialoghi sono di buona fattura, anche se spesso inclini alla battuta di spirito. Ottima la scelta degli attori ed interpretazioni quasi tutte di buon livello. Particolarmente "azzeccata" la scelta di Elijah Wood (Frodo).
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di Brian Helgeland, 2001
O dell'attualizzazione. Il cinema (in particolare) quando parla del passato in realtà parla del presente. è risaputo. E questo film, in cui abbondano i luoghi comuni sul Medioevo, è l'ennesima conferma. Sarebbe interessante confrontare molti anacronismi rilevati nel film con quanto finora emerso dagli studi sul Medioevo. Si rischierebbe, però, di cadere per l'ennesima volta nella trappola di valutare un film soltanto da un punto di vista che privilegi una maggiore o minore fedeltà storica. Beninteso: quest'ultima operazione va sempre fatta, ma deve (o dovrebbe) essere sempre accompagnata da un'analisi che legga il film in profondità, nel suo essere prodotto di un contesto storico-culturale e nel messaggio che, consapevole o no, intende lanciare al pubblico. In questo film, dove i tornei cavallereschi sono presentati come il "circo" della Formula 1, con tanto di "campionato mondiale", e dove le taverne assomigliano ai pub, con tanto di gruppo rock, il pubblico che assiste ai tornei è equiparato a quello delle tifoserie degli stadi: batte le mani a tempo (come anche nei varietà televisivi), fa i cori e si dipinge sulla faccia lo stemma araldico del campione preferito. Altra chicca: gli araldi presentano i campioni come se stessero presentando James Brown . L'inventore di questo genere di presentazione è Geoffrey Chaucer: sì, proprio lui, l'autore dei Racconti di Canterbury, ad uno dei quali, il film si ispira. I suddetti campioni, come ormai si può intuire, assomigliano agli attuali divi dello sport, gareggiano a tempo di rock e per loro smaniano le ragazzine. è, insomma, un film dichiaratamente commerciale, rivolto ad un pubblico di massa. Niente di male. Se non fosse che gli autori, anziché divertirsi onestamente alle spalle del passato, certificano la pellicola con una seriosa didascalia di apertura dove si afferma che nel Medioevo venne inventato lo sport (è scritto proprio così) del torneo, con diverse specialità, e che tale sport divenne popolarissimo, come i suoi campioni. Questa premessa consente al pubblico di assimilare il passato al presente e di giustificare le forzature alla Storia.
Dall'attualizzazione del passato compiuta dagli autori de Il destino di un cavaliere, emerge un Medioevo da stadio e da televisione. Oltre agli anacronismi ed ai luoghi comuni sul Medioevo, il film è basato su stereotipi narrativi: l'american dream, ovvero il bambino che sogna di diventare (e, ovviamente, ci riesce) un campione e un nobile, il nemico antipatico e scorretto, la storia d'amore contrastata. La sceneggiatura calca molto la mano su tali stereotipi ma fallisce i suoi obiettivi: l'intreccio è poco credibile e, spesso, cade in incongruenze. I personaggi o sono delle macchiette oppure sono abbozzati - per inciso: fra gli attori si salvano Nick Brimble (sir Ector) e Laura Fraser (la donna-fabbro), quest'ultima solo perché, a parere di chi scrive, fuori ruolo. Abbozzata è anche la sceneggiatura e le sue manchevolezze emergono, in particolare, quando il film si sofferma sugli aspetti psicologici e sulle vicende personali e sentimentali dei protagonisti. La regia punta tutto su riprese spettacolari, prolisse e ad effetto. Ma, alla lunga, il film annoia e appare piuttosto lungo.
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L'«altra» recensione: di Stefano Latorre
I cavalieri che fecero l'impresa
di Pupi Avati, 2001
La "vita materiale" e la cultura (in senso antropologico) del Medioevo fanno da sfondo all'"avventura" che vede protagonisti cinque cavalieri: il furto della Sindone da Tebe. In realtà, i cavalieri sono quattro: Raul Bova lo diverrà alla fine del film, grazie ad una cerimonia dai risvolti involontariamente comici. Il tentativo di Avati di evidenziare gli aspetti poco eroici e dimessi della cavalleria medievale, e di raccontare queste ultime come un film d'azione, si risolve in un'occasione mancata. Gli aspetti della vita materiale, su alcuni dei quali il regista si sofferma in maniera leziosa e compiaciuta, finiscono per diventare il supporto di un altro Medioevo, quello leggendario. Vediamo come. Da un lato, il regista cerca di raccontare allo spettatore la "vita quotidiana" di un periodo storico lontano dal nostro; dall'altro, però, l'insistenza sugli aspetti minuti e dimessi della civiltà e della cultura medievali tende a conferire credibilità all'intera vicenda narrata e, in particolare, all'"avventura" del trafugamento della Sindone. Eppure, insistere sugli aspetti della vita materiale, sulla mentalità di un'epoca, e quindi sulla sua alterità rispetto alla nostra, significa ridimensionarne l' aspetto leggendario (oltre che i luoghi comuni). In questo caso, prendere le distanze dall'accettazione del significato corrente che viene dato alla Sindone. La Sindone, in realtà se ne contano più di una, è una reliquia come tante altre. E come reliquia, nella mentalità del Medioevo, Avati doveva trattarla, coerentemente con il suo intento di narrare un Medioevo quotidiano.
Fra gli altri casi di questa ambiguità nella narrazione, che pregiudica il film, sarà opportuno citarne uno. Raul Bova stringe un patto col diavolo. Il rito lascia presagire allo spettatore che, in fondo, a credere al patto è soltanto l'apprendista-fabbro Raul Bova. Succede, poi, che i protagonisti sostino in un convento. All'arrivo dei cinque al convento, la terra trema. La scossa di terremoto insospettisce un vecchio monaco cieco - maldestra imitazione del monaco Jorge da Burgos del Nome della rosa - che dal "segno" afferma che uno dei cinque ha stretto un patto col diavolo. Tutto bene se non fosse che il rumore della scossa è udito anche dallo spettatore: di conseguenza, Raul Bova ha realmente stretto un patto col diavolo, piuttosto che "credere" di averlo stretto. Ciò compromette il tentativo di Avati di farci entrare in un epoca la cui "visione del mondo" è completamente diversa dalla nostra. Ma c'è dell'altro. Il tempo della "vita materiale" - che è necessariamente lento - incide in maniera decisiva sul "tempo" del film, che vorrebbe essere anche epico-avventuroso; insomma, un film d'azione. Ma un film d'azione richiede velocità nella narrazione, anche a costo di una certa superficialità; vi predomina la velocità a scapito dell'approfondimento e della riflessione. Le sequenze d'"azione" si riducono a qualche didascalia che informa sul luogo dell'azione, tanto per dare il senso dello spazio e del tempo, a qualche combattimento girato in maniera discutibile, a qualche sequenza di compiaciuta, e inutile, "macelleria" (Avati non dimentica di essere un regista horror). La sequenza del furto della reliquia, che (come già detto) tralascia tutto il discorso sulle reliquie, appare frettolosa, arrangiata e dai risvolti comici. In sostanza, del film d'azione resta la "superficialità", cui si sommano l'ambiguità culturale di cui si è detto e la lentezza del ritmo narrativo che pervade l'intero film. Infine, a contribuire a rendere incerto il film di Avati è la lingua che parlano i cinque "cavalieri": costoro adoperano indifferentemente l'italiano e l'accento - con sfumature dialettali - delle rispettive zone di provenienza. Siamo lontani dal felice risultato raggiunto da Monicelli ne L'armata Brancaleone.
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©2002 Gaetano Pellecchia