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Le «altre» recensioni

di Giuseppe Losapio

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HARRY POTTER E LA PIETRA FILOSOFALE

di Chris Columbus, 2001

LA SCHEDA DEL FILM

   

Giovedì 6 dicembre ha debuttato in tutte le sale cinematografiche italiane il film Harry Potter e la Pietra filosofale, tratto dall’omonimo libro, primo di una serie di sei volumi, scritto dall’autrice scozzese J. K. Rowling. Il film è diretto da Chris Columbus già regista di film coma Mamma ho perso l’aereo e prodotto dalla Aol Time Warner per la modica cifra di 250 miliardi di lire (129.110.000 in euro). I numeri della produzione sono stati così notevoli da far scrivere su Variety, la bibbia dello showbusiness americano, che il kolossal «è il primo corporate movie: non è stato girato, ma fabbricato». La definizione la dice lunga se la associamo ai nomi del casting della produzione: gente esperta, che lavora nel cinema per ragazzi e che si trova a gestire il best-sellers letterario degli ultimi anni.

Il film è il solito scacciapensieri, tipico del periodo natalizio, adatto per le famiglie e per i più piccoli, ma la novità sta proprio nel fascino esercitato verso il pubblico adulto. Attrazione non soltanto verso il film, ma anche nei confronti del libro.

La storia è quella di un orfanello, Harry Potter figlio di maghi uccisi dall’Oscuro Signore Voldemort, che viene affidato ai suoi zii facenti parte della categoria dei “babbani” perché non percettori ed non usufruitori delle arti magiche. Potter vive in un sottoscala, maltrattato dai suoi zii, ma al compimento dell’undicesimo anno di età viene convocato presso la scuola di magia dove troverà amici ed alleati per combattere il male incarnato in uno dei professori del magico college.

La trama nella sua semplicità cade spesso nella banalità del politicamente corretto, è pur sempre un romanzo per ragazzi, ma ha una tradizione che attira la nostra attenzione: l’apparato mitologico, i concetti e le terminologie usate rimandano ad un procedimento e ad un mondo già utilizzati dai precedenti autori del genere fantasy. La Rowling elabora una delle tante immagini che ribollano nel pentolone del Medioevo fantastico e magico. Alla morale vittoriana dei romanzi di Charles Dickens: nel mondo c’è tanto male, ma il bene alla fine trionfa; si accosta quell’apparato poetico e mitologico elaborato dal maestro del fantasy, J. R. R. Tolkien.

L’autore de Il Signore degli Anelli ebbe la grande intuizione di creare un Mondo Secondario specchio di un Mondo Primario, il nostro, utilizzando il Medioevo, epoca da lui conosciuta in quanto docente di Filologia anglosassone presso l’Università di Oxford. Così il Medioevo diventa Terra di Mezzo, costruzione narrativa nata per mascherare fatti ed idee di un’età contemporanea in decadenza.

Daniel Grotta in The Biography of J. R. R. Tolkien, 1976 (traduzione in italiano di Francesco Saba Sardi, Rusconi, Milano 1983) osserva che «un autore non può, com’è ovvio, restare del tutto insensibile alla propria esperienza». Marco Respinti, studioso del genere letterario, in un suo articolo sul Secolo d’Italia indica: «La mitologia è costruita su riferimenti culturali e storici, e riflette sia l’etica del narratore o mitografo, sia i valori della società». Nel volume di Marc Shapiro: J.K. Rowling. La maga dietro Harry Potter, il titolo originale è J.K. Rowling. The Wizard Behind Harry Potter, 2000 (traduzione italiana di Paola Cartoceti, Fanucci, Roma 2000), si evidenzia come «il mondo reale può essere un mondo molto agitato. Non è sempre onesto e amichevole. E non sempre c’è un lieto fine. Ecco perché, ogni tanto, ci piace fuggire in un mondo di fantasia – un luogo dove le cose funzionano meglio e si può sperare di essere felici e contenti. Vogliamo credere in creature fantastiche che vivono in terre immaginarie. Vogliamo credere nella magia, negli amici fedeli e nel potere del bene che trionfa sul male. Sogniamo di saper volare e sollevare le case da terra. E immaginiamo di andare a uccidere un drago o a conquistare la mano di una bellissima principessa brandendo una spada magica. (…) Ecco perché siamo tutti ansiosi di conoscere le nuove avventure del nostro mago preferito, Harry Potter, un orfanello inglese di tredici anni che frequenta la Scuola di Magia e di Stregoneria di Hogwarts e che cerca di essere un ragazzo normale mentre affronta il fantastico a ogni angolo». Tolkien definiva la fantasia un diritto che l’uomo esercita creando a imitazione del suo Creatore, a somiglianza del quale egli è fatto.

Ed ecco i tanti personaggi tolkeniani rielaborati dalla Rowling per i suoi romanzi: i tanti hobbit rappresentati dagli studenti di magia, coraggiosi, curiosi e impacciati nell’affrontare qualcosa più grande di loro;  il direttore della Scuola Albus Silente guida e tutore dei giovani allievi è il mago Gandalf, che dal 

secondo libro de Il Signore degli Anelli  in poi farà associare al suo nome l’appellativo de “il bianco”; Voldemort, l’Oscuro Signore che tanto ricorda Sauron, l’Occhio senza palpebra che tutto scruta, essere malefico per eccellenza che brama l’Unico Anello per potersi incarnare e riappropriarsi dei propri poteri, lo stesso avviene nel film con la Pietra filosofale. E non finisce qui. L’autrice attinge a piene mani a questi universi, per cui potremo spingerci in questo gioco di associazione per ogni particolare del libro, ma non ci resta che vedere il film, o leggere il libro, per continuare da noi stessi questo esercizio.

   


IL SIGNORE DEGLI ANELLI

di Peter Jackson, 2001

LA SCHEDA DEL FILM

   

Scrivere una recensione, per alternativa che sia, sul primo film de Il Signore degli Anelli è molto impegnativo, specialmente quando lo si è visto per due volte di seguito. Il regista neozelandese Peter Jackson ha l’arduo compito di tradurre cinematograficamente La Compagnia dell’Anello, primo libro della trilogia tolkieniana, divenuta un classico della letteratura inglese del ‘900.

La passione per J.R.R. Tolkien, che risale ai miei 16 anni, mi ha fatto accostare alla prima visione del film con aria fortemente critica da sfiorare la saccenteria, infatti, alla prima sfasatura ho aggredito lo schermo con espressioni quali “Qua manca questo personaggio…; questo non esiste nel romanzo…; ecc.”. Dopo che la maschera del cinema mi ha minacciato di cacciarmi alla mia prossima intemperanza eruditica, mi sono forzosamente tranquillizzato, cercando di comprendere la scelte registiche, l’interpretazione degli attori e, cosa più importante, se lo spirito del romanzo fosse stato rispettato.

Una produzione in pieno stile hollywoodiano, con 300 miliardi di euro spesi in tutto per finanziare una troupe di 2.000 persone, 20 attori protagonisti e 20 mila comparse, 2000 armi in plastica semirigida e 100 realizzate da armaioli e da esperti artigiani; la produzione di certi attrezzi è stata appaltata a lavoratori esterni, come le armature realizzate a basso costo in India con tanto di certificazione di Amnesty International, che ha assicurato il mancato utilizzo di manodopera minorile. Anche questa volta il grande carrozzone di Hollywood ha colpito in pieno, seppur lungo circa tre ore, si è rivelato il più grande successo della stagione: l’epico tira in sala. Non è solo voglia di filmoni con migliaia di comparse che si scannano tra loro, sistema ormai superato dalla tecnologia computeristica, che grazie al programma Massive è capace di riprodurre migliaia di creature digitali dotate di intelligenza artificiale e di decine movimenti di battaglia, diversi per ciascuna delle forze schierate, ma è la sete di mito che spinge la gente ha rendere questo primo film, un vero fenomeno di costume, visto anche il successo di vendite di DVD di questo mese. A rappresentare gli eroi di questa “nuova mitologia europea”, prodotta dalla Miramax, sono: Christofer Lee conosciuto dal grande pubblico nelle sue indimenticabili interpretazioni di Dracula, in questo film è Saruman il Bianco, signore del Consiglio dei Saggi; Ian Meckellen è Gandalf il Grigio; il giovanissimo Elijah Wood è Frodo Baggins lo hobbit; Liv Tyler, figlia del famoso cantante degli Aereosmith, Steve Tyler, tanto bella lei quanto è orrendo il padre, è Arwen la Stella del Vespro, mezzelfa figlia di Elrond, interpretato da Hugo Weaving, conosciuto come l’agente Smith in Matrix, re di Granburrone; la stupenda Cate Blanchett è Galadriel la regina degli elfi Noldor del bosco di Lorién.

La trama è abbastanza fedele al romanzo di Tolkien, con un unico tradimento dettato da esigenze moderniste. A metà film, quando Frodo viene colpito dai pugnali malefici dei Cavalieri Neri, detti anche Nazghul, su Colle Vento, quando inizia la fuga verso Granburrone, la compagnia viene aiutata da un elfo che perlustrava la zona. Nel romanzo questo personaggio si chiama Glorfindel. Nel film questo ruolo viene affidato ad Arwen che si inserisce in diverse scene d’azione inventate apposta per lei. Tutto questo non avviene nel romanzo, anzi nel primo libro il suo ruolo è molto marginale. Perché il regista ha voluto mettere in risalto questo personaggio, che vediamo partecipare in scene d’azione palpitanti, in schermaglie e lancio di incantesimi vari? Perché questa appropriazione indebita di ruolo? Con questo omaggio al gentil sesso, Peter Jackson, ha voluto dare più spazio e più importanza ad una figura femminile, per di più interpretata da un’attrice, che visto il suo astro in ascesa, non può fare parti secondarie. Il tutto molto è politicamente corretto. è questa la nota dolente di tutto il film che stona con l’armonia mitologica del romanzo, che pone ben altre figure femminili in primo piano, come la stessa Galadriel, personaggio problematico e carismatico di tutto il romanzo. Mi scuso se sono brutale in questa considerazione, ma per salvaguardare il romanzo non mi interesso delle critiche delle femministe. Nel libro le priorità e i messaggi sono ben altri, che il classico spazio da WWF da assegnare alle donne!

Tolkien esprime dei simboli precisi, come il tema del viaggio mediato ottimamente dalle panoramiche affascinanti e mozzafiato che propone la Nuova Zelanda, del percorso espiatorio per distruggere il Potere racchiuso nell’Anello. Altra tematica è la fratellanza d’armi che si crea tra i componenti della Compagnia dell’Anello, metafora di quei popoli liberi così diversi tra loro, ma uniti nell’affrontare il nemico nazista durante la seconda guerra mondiale. All’evento bellico, infatti, vi partecipò il figlio John come ufficiale della Raf. Franco Cardini, storico medievista e studioso tolkieniano, in una intervista rilasciata al settimanale Il Venerdì di Repubblica dell’11 gennaio del 2002, dichiarava che Tolkien «Era un conservatore, ma detestava Hitler anche perché si era impadronito dei miti medievali cavallereschi, contaminando la purezza spirituale con la purezza della razza. Quel che affascinava le destre radicali era quel tessuto di tradizioni germaniche e celtiche, quell’orizzonte epico ed eroico di un Medioevo malinteso. Era una ipotesi ormai sconfitta del riscatto dell’Occidente dal primato dell’economia e del materialismo: una sorta di religio finis». è un punto importante per poter capire la produzione letteraria di Tolkien che aveva vissuto entrambe le guerre mondiali direttamente: la prima con lui al fronte e la seconda con il figlio. Quella che lui chiamava “la guerra civile europea del ’14-’45” viene rappresentata nel primo libro con le diverse razze: hobbit, elfi, nani e umani, uscite sconfitte dalle perenni guerre fratricide. Evidenzia Adolfo Morganti, su un articolo pubblicato sul mensile culturale Area di dicembre 2001, dal titolo Tolkien, cantore del mito e tessitore di simboli, come l’autore inglese “fotografò e comprese i rischi terribili per l’insieme dei popoli europei che questa guerra intestina provocava. In decenni di nazionalismi dogmatici contrapposti, la coscienza culturale dell’unità europea è sembrata estinguersi in una palude di microconflittualità tendenti a sommarsi fino ad esplodere ciclicamente in immense conflagrazioni belliche, i cui costi umani e sociali venivano pagati da tutti i popoli europei. Alla fine delle due guerre mondiali, l’Europa aveva perso il ruolo centrale che tradizionalmente gli apparteneva, ed è diventata colonia di ideologie estranee alla sua tradizione storica e culturale”. Ecco perché Tolkien scrive questo romanzo, concepito sul fronte della Grande guerra e iniziato sul termine della Seconda. Ecco perché si parla di “nuova mitologia europea”. Il concetto del mito come racconto è centrale in tutta l’opera, che attraverso un attento studio filologico del professore di Oxford sulla cultura greca e latina, celtica, germanica e finnica si riallaccia a quelli che saranno gli studi sulla koiné comune europea di Géorges Dumézil, di Mircea Elide e di Julien Ries; fino ad essere citato negli studi più aggiornati di specialisti quali D’Anna, Polia, Le Roux e Guyovarc’h e Chiesa Isnardi. Tolkien vuole rappresentare la religiosità indoeuropea.

Religiosità che approda e affonda nel Cristianesimo, tanto caro all’autore. Un esempio è dato dalla figura di Galadriel, leggiadra e immortale, traduzione della Madonna nel mito nordico, principale fonte di Grazia tipica virtù mariana. A lei sono associate capacità divinatorie, non di un futuro favoloso ma reale, che nasce dalle illusioni e dalle paure del momento. Durante il turbamento e lo spaesamento di un futuro inaspettato, entra in gioco la Grazia: fonte di pace e di tranquillità che spinge gli eroi verso la “Cerca”, unico rimedio agli incubi.

“La Cerca: sia lo Hobbit - scrive Adolfo Morganti - che Il Signore degli Anelli si dipanano a partire da una Cerca; non esiste simbolo più tipicamente medievale della Cerca, a partire dalla Cerca del Graal; in essa si percorre un itinerario non solamente esteriore, e se alla fine il viaggio più pericoloso è sovente quello all’interno di sé”. Ognuno dei componenti della Compagnia porta avanti un percorso che trasfigurerà il corpo, e quindi lo spirito, e la loro vita. Itinerario che si dipana nei tre libri, ma che già nel primo si intravedono i primi epigoni e le prime avvisaglie. Lo sfondo su cui si muovono i personaggi è quello dell’eterna lotta tra il Bene e il Male. Su questo netto manicheismo non condivido pienamente la critica classica: non nego la loro presenza, ma costituiscono solo lo sfondo su cui si muove la vasta umanità della Terra di Mezzo, creando sfumature varie e particolari chiaroscuri. Personaggi che dovrebbero rappresentare il Bene per eccellenza si scoprono essere i più infidi e i più pericolosi, questo perché agiscono gli agenti della tentazione, che inducono chi ha grandi responsabilità verso l’errore. Boromir, interpretato da Sean Bean, figlio del Sovrintendente di Gondor, l’antico regno in decadenza dei Dunedàin, è un uomo di grandi virtù di comando e di giustizia nonché prode guerriero, ma è tentato dall’Unico, l’Anello del Potere creato da Sauron, detto l’Oscuro. Infatti l’Oscuro Sire crea questi potenti manufatti per aumentare a dismisura il suo potere e per seminare conflitti tra i popoli della Terra di Mezzo. L’Anello, essendo un oggetto senziente vuole ritornare dal suo legittimo proprietario, quindi acceca la ragione di Boromir portandolo ad aggredire Frodo per sottrarglielo. Il guerriero è convinto di utilizzarlo per i suoi scopi contro l’esercito del Male, ma si sbaglia perché coloro che indossano l’Anello senza controllare i suoi poteri, diventano schiavi dell’Oscuro e vanno ad incrementare la schiera dei Cavalieri Neri. Non è la via più breve quella che porta alla salvezza e questo Boromir lo intuisce in punto di morte, mentre cerca di riparare al suo errore difendendo Frodo da un’imboscata degli Uruk-hai. Morirà suonando il corno della sua casata per avvisare i compagni del pericolo, citazione che richiama il corno di Orlando durante l’imboscata a Roncisvalle. Altro esempio è dato da Saruman il Bianco, capo dei Saggi della Terra di Mezzo, uomo di grande saggezza e virtù diplomatiche, più volte in passato ha guidato le schiere degli uomini e degli elfi insieme contro gli eserciti di Sauron, rimane assoggettato dalla bramosia di possedere l’Anello e per poterlo avere rinuncia ai suoi ideali per cui aveva creduto in passato: con i suoi poteri magici e conoscenze arcane crea una nuova razza ibrida (ingegneria genetica), gli Uruk-hai spietati guerrieri che al contrario degli Orchi riescono a combattere anche con la luce del giorno. Per poter creare questi ibridi, Saruman, fa abbattere gli alberi secolari della foresta di Isengard, sede della sua corte, per poi sventrare la terra e creare un’enorme officina dove lavorano migliaia di orchi spersonalizzati, intenti a qualsiasi nefandezza. Le scene suggestive bene rappresentano il tema del primato della natura violato dall’industrializzazione forzata, che Tolkien critica senza mezze misure, di cui, nel secondo libro, metterà in atto la vendetta.

A questo punto è giusto chiederci se il film riesce a rispettare i temi, quindi non tutto il romanzo, dell’opera? Riesce questa traduzione a rappresentarne lo spirito? E perché avvengono i tradimenti? Conserva la caratteristica di “letteratura di evasione” come fu definita da Elmiré Zolla nella introduzione dell’edizione Rusconi degli anni ’70, curata da Alfredo Cattabiani, o trasborda in una “letteratura di diserzione”?

La nobiltà del fantastico tolkieniano sta proprio in un più volte esternato e ripetuto “diritto alla fantasia”, che viene rappresentato come la santa fuga del prigioniero. Fuga questa che ha affascinato schiere di giovani negli anni ’70 infatuati dalla rivoluzione culturale, e negli anni ’80, quando furono inorriditi dall’odio e dal piombo di una stagione di violenze.

Ho il timore che la tentazione alla diserzione sia dietro l’angolo. A dettare, a Jackson, questa impostazione è il politicamente corretto hollywoodiano, che tanto male fa a questo capolavoro, il cui spirito non ha bisogno di alcuna modifica. I dubbi restano e non voglio tirare somme affrettate per via degli altri due film, le cui immagini in anteprima non fanno che affascinarmi a questo stupendo “Mondo Secondario”.

   

  

©2002 Giuseppe Losapio

  


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