...
La sua carriera può essere suddivisa in tre periodi: quello prettamente surrealista, quello anti-cattolico messicano (in cui si scaglia contro la superstizione) e quello anti-borghese parigino (in cui si scaglia contro il vizio): la convenzione. Da un capo all'altro della sua opera ricorrono dei tipi emblematici: l'hidalgo impotente (El, lo zio di Viridiana, lo spasimante di Conchita), personificazione del tradizionale Don Juan e impersonato dal prediletto Ferdinando Rey, la vergine conturbante (Viridiana, Tristana, Conchita), forse dissacrazione della Madonna, il santo (Nazarin, Simon), e una piccola folla di mostri tratti dagli affreschi di Goya. Il modo in cui procede la narrazione è sempre multiplo e imprevedibile. L'azione principale è diffratta nel prisma di illuminazioni, si svolge per adattamento e mutazione fluttuando in uno spazio mentale molto ampio. Lo stile riflette fedelmente il delirio nevrotico dei personaggi, incalzandone la follia e i vizi con l'irrazionale, esso stesso un rituale maniacale.
La filosofia che lo ispira è anarchica ed atea; Buñuel è tale di natura: rifiuta di dare ai suoi film un contenuto, esalta il caso come fonte di suprema ispirazione artistica, struttura i suoi film sulla dissoluzione della narrazione, del monologo registico, e disintegra persino la realtà (dimostra l'interscambiabilità di sogno e realtà, l'impossibilità di distinguere l'uno dall'altra).
Il cinema di Buñuel è il fascino del caos e dell'irrazionale, la libertà dell'immaginazione; perciò è attratto dalle forme storiche dell'irrazionale (la trance mistica, la turpitudine delle pratiche religiose, la metafisica arcaica, la stregoneria, il supplizio, e su tutto, il desiderio sessuale), e perciò tenta di ricostruire un medioevo caotico nell'epoca moderna, o meglio cerca le tracce di un preesistente medioevo, che ha tramutato le "superstizioni" in "convenzioni". Questo è il passaggio dal bigottismo confessionale a quello borghese. La cultura
buñueliana, nonostante l'ostentato nichilismo del gran vecchio, germoglia su un terreno già rigoglioso: è la cultura degli eretici incrociata con la psicoanalisi, il marxismo e la relatività, e il populismo eccessivo, cupo e grottesco di Goya incrociato con la scrittura automatica dei surrealisti, le leggende allucinate di Christensen incrociate con le turpi cronache di Stroheim. Le truci fiabe millenarie di questo vecchio libertino dall'estro fantasmagorico, cinico e blasfemo, sono ai margini dell'apocalisse; ripudiano tutti i miti, ogni genere di feticismo, e persino la realtà: il candore freddo delle sue vittime è la visione più rigorosa del suo nichilismo. Ma alle spalle lo sorreggono le grandi idee del nostro secolo e forse in questo senso tanto nichilismo rappresenta la prima vera emancipazione della tradizione romantica.
Il contenuto comunque c'è e si può cogliere considerando il film buñueliano come una pratica ossessiva, rivelatrice in quanto ripetitiva: l'impotenza (o nel desiderio irrealizzabile di possedere una vergine, o nel blocco psicologico collettivo), il bisogno di violare (i vizi nascosti dei borghesi rispettabili, il desiderio morboso di sverginare), il viaggio senza meta (da Nazarin ai borghesi discreti), la crisi sociale (le parodie delle classi sociali e del cinema politico).
Buñuel ama anche esprimersi attraverso gli slogan di certi suoi personaggi (celeberrimo l'"abbasso alla libertà"), autentici slogan da manifesto dadaista. Non serve invece tentare di spiegare le singole metafore, che hanno la stessa funzione delle gag nei film di Chaplin. Come regista ha sempre prediletto (facendo di necessità ingegno) uno stile asciutto, sintetico e dettagliato. Capace di spaziare dal giallo al suspence, dall'horror al vaudeville, alla farsa,
Buñuel non è però mai sceso nell'agone hollywoodiano. Il suo è uno dei pochi cinema che non abbiano avuto come scopo lo spettacolo. Poeta e visionario, ha giocato con la macchina da presa e con l'apocalisse imminente.
|