|
testo di Annangela Federica Germano |
|
Robin e Marian
(Robin and Marian)
di Richard Lester, 1976
|
La leggenda di Robin Hood ha fornito non pochi spunti alla cinematografia moderna. Tra i molti film prodotti, Robin Hood (1938, regia di Michael Curtiz), Robin Hood, la leggenda (1991, regia di John Irvin), Robin Hood, principe dei ladri (1991, regia di Kevin Reynolds), sino al recente Robin Hood di Ridley Scott (2010); negli anni Settanta (1976) si distingue questo bel film di Richard Lester. La pellicola ha inizio con tre mele che marciscono nel fotogramma immediatamente successivo ed una croce che in realtà è l’impugnatura di una spada. È quindi palese l’intento del regista di rivedere il mito di Robin Hood in chiave a volte critica a volte ironica. «è difficile […] rintracciare nel cinema hollywoodiano o anglosassone in genere un film che abbordi il mondo medievale da un angolo visuale comico-realistico. Per esso il Medioevo è pur sempre un palcoscenico affollato di cavalieri erranti, dove pare non ci sia posto per la moltitudine affamata e sporca che tutti sappiamo essere stato il nerbo della popolazione. Al punto che, quando Lester mostrò i due leggendari eroi immersi nella pulsante e limacciosa quotidianità, alle prese l’uno con gli acciacchi dell’età, prematuramente manifestatisi in seguito alle molte notti passate all’addiaccio, l’altra impegnata a districarsi fra maiali e galline e altri animali domestici che ingombravano il cortile del convento in cui s’era ritirata, ci parve di respirare, pure fra il lezzo del letame, una boccata d’aria nuova nel cinema anglo-americano, ancora una volta cimentatosi con il lontano passato» (V. Attolini, Tre altri Medioevi sugli schermi, in «Quaderni Medievali», n. 19, giugno 1985, p. 145). Mancano i facili eroismi, la violenza e tutta una serie di momenti cavallereschi, però ripresi nel drammatico gesto finale di Marian (l’avvelenamento di sé e dell’amato). Allo stesso modo, «nella luce autunnale del film si perpetua ancora una volta il mito, mirabilmente espresso nella finale metafora della freccia lanciata da Robin» (freccia scagliata con il tipico long bow, arco lungo, alto un paio di metri e in grado di lanciare frecce fino ad oltre duecento metri) «che l’immagine conclusiva fissa […] nell’eternità senza tempo della leggenda. […] Robin e Marian si colloca infatti nel punto di incontro fra la mitografia del personaggio e l’esigenza di una più spregiudicata e perfino scanzonata revisione della tradizione. Scompare da questo film ogni forma di abbellimento esteriore della realtà, che viene rappresentata anche nella sgradevolezza del quotidiano, come, ad esempio, nel brano in cui Robin riesce a trovare il convento che è diventato la dimora di Marian: un casolare agricolo diroccato affollato di animali domestici, che ha ben poco di quei luoghi di lavoro e preghiera cui rimanda l’idea del monastero medievale» (V. Attolini, Robin Hood sullo schermo, in «Quaderni Medievali», n. 33, giugno 1992, pp. 101-102).
Robin è ritratto, con comprensione e passione, ingrigito e un po’ stanco, un uomo che malvolentieri accetta il passare del tempo; infatti «ha vent’anni di più dell’eroe che il cinema aveva fino ad allora rappresentato e la sua crepuscolare elegia è anche una meditazione sul tempo che passa e che ci trasforma» (Attolini, Robin Hood cit., p. 102). Ma gli acciacchi dell’età non sono un freno al suo coraggio. Né i tanti anni, venti o più, trascorsi lontani, né la strada della conversione intrapresa da Marian hanno spento il sentimento tra i due. Il loro amore ritrovato è mostrato con una tenerezza agrodolce e con il consueto, per non dire convenzionale, odio-amore. Robin, accompagnato dal suo amico di sempre John, è al comando di un piccolo gruppo di cavalieri ma si rifiuta di eseguire l’ordine del re Riccardo Cuor di Leone, di cui è stato fedele servitore per oltre vent’anni, di mettere sotto assedio il castello già semi-distrutto di Châlus, fortezza di un vassallo ribelle, unica struttura in un paesaggio quasi desertico, strenuamente difeso da un povero vecchio con un occhio solo. Il re sentenzia per i due dissidenti la pena capitale, decisione poi revocata in punto di morte (6 aprile 1199). Il regno passa quindi nelle mani del fratello Giovanni, soprannominato Senza Terra poiché precedentemente escluso dall’eredità paterna, che invece «adesso se la piglia tutta la terra», e Robin e John tornano a casa, alla ricerca della loro foresta di Sherwood, nella loro Inghilterra fiorente e rigogliosa (lampante il contrasto con una Francia desolata). Nonostante il sovrano appaia solo per poche scene, emerge il ritratto di un uomo, come dice lui stesso di sé, facilmente soggetto agli sbalzi di umore. Di Riccardo Plantageneto, soprannominato Cuor di Leone per il suo coraggio, si sa che ebbe un pessimo carattere, cosa che gli valse l’inimicizia di altri sovrani; fu un sovrano assente per l'Inghilterra, dove infatti ammette, nel film, di non esservi mai stato, non solo per il suo impegno nella Terza Crociata (1189-1192, detta anche la "crociata dei Re", fu un tentativo, da parte di vari sovrani europei, di strappare Gerusalemme e quanto perduto della Terrasanta al Saladino), sia per la prigionia subita al ritorno dalla crociata nelle terre dell’imperatore Enrico VI, sia, infine, per i lunghi anni trascorsi in Francia (1194-99) a guerreggiare con Filippo II Augusto il quale, approfittando della sua lunga assenza, aveva occupato buona parte dei suoi feudi francesi. L’altro monarca, nel film, è Giovanni I Senza Terra: dalle parole di Tuck e Jack, gli amici ritrovati di Robin e John, appare un re vizioso e crudele, intento a trascorrere la maggior parte della giornata nella tenda con la regina neanche dodicenne, ma in grado di ritagliarsi un po’ di tempo per occuparsi della gestione del potere. In effetti, le cronache coeve lo descrivono dissoluto ed ozioso, oscillante fra una pigra malinconia e momenti di sanguinaria crudeltà, amante di abiti eleganti, di piatti e vini prelibati e, nondimeno, della compagnia di belle donne e di intrattenitori divertenti. Nonostante le sue competenze giuridiche e amministrative, si dimostrò un re poco abile nel preservare i rapporti umani, sia con i suoi sudditi sia con gli altri potenti, laici o ecclesiastici.
E proprio con questi ultimi il sovrano vivrà alcuni contrasti: dispone infatti che siano cacciati dall’Inghilterra tutti i rappresentanti della Chiesa (difatti Marian, per non aver ubbidito all’ordine, attende di essere arrestata dallo Sceriffo di Nottingham), «litiga col papa, non si dice più messa e la comunione è proibita». Ma Giovanni fu anche il firmatario della Magna Charta Libertatum (1215), primo documento nella storia europea a sancire i diritti del cittadino e garante della libertà e dell’integrità dei diritti della Chiesa inglese. Un momento particolarmente intenso, carico di emotività, è il racconto di Robin di un macabro episodio avvenuto durante la Terza Crociata, da lui assurdamente definita «una cosa divertente»: il 20 agosto del 1191, dopo neanche un mese dalla presa della fortezza di Acri da parte del re Riccardo (12 luglio 1191), la popolazione musulmana superstite fu portata, incatenata, fuori dalle mura della città, dove il sovrano operò una cernita a dir poco crudele: i ricchi furono risparmiati contro un riscatto, i più prestanti ridotti in schiavitù, i bambini furono invece fatti a pezzi e, subito dopo, ne furono uccise anche le madri (per un totale di tremila morti). Ma i loro corpi furono anche squartati per trovarvi oro e pietre preziose, stando alle convinzioni di Riccardo. Se sconvolge questa crudeltà gratuita, forse ancor più raccapricciante è l’indifferenza dimostrata in quell’occasione dagli uomini di Chiesa o, peggio ancora, la comprensione di quell’atto sanguinario. Robin ricorda che per giunta un sacerdote ritenne un trionfo quello sterminio e che un vescovo, in quella stessa occasione, indossò la mitria, a mo’ di celebrazione, invitando tutti a pregare. Non è certo la prima immagine di uomini di fede corrotti, opportunisti e traditori della propria vocazione; un’immagine che se da un lato è ormai parte del repertorio di stereotipi e luoghi comuni con i quali il Medioevo è costretto a convivere e a combattere, dall’altro trova riscontri storicamente attendibili negli errori commessi nel corso dei secoli (dimostrativi sono la Santa Inquisizione, la caccia alle streghe, i credi capovolti sfociati in movimenti ereticali…).
|
©2008 Annangela Federica Germano