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Tre immagini di Medioevo: Bergman, Tolkien, Scott

di Franco Cardini

  

 

  

 

 

1- Il Settimo Sigillo. Medioevo, partita a scacchi contro il nulla

Ingmar Bergman

La generazione precedente alla mia, quella di chi oggi ha tra i settanta e i novant'anni, è stata forse segnata soprattutto dalla radio; quella successiva alla mia, i trenta-cinquantenni, è una generazione decisamente televisiva; la prossima, quella di chi oggi ha fra i dieci e i trenta, è una generazione informatico-telematica, tutta computer e telefonini. Noialtri che stiamo tra i cinquanta e i settant'anni, noi generazione della guerra in Vietnam, del boom economico e del Sessantotto, noi contemporanei di Bob Dylan e di Sean Connery, siamo senza dubbio una generazione profondamente segnata dal cinema, intrisa di cinema. Non che il grande schermo e la pellicola al nitrato d'argento non fossero cose anche di prima: è ormai praticamente un secolo che ogni generazione ha i suoi idoli cinematografici, e Charlot non vale certo meno di Johnny Depp.

E noialtri che abbiamo abbastanza rapidamente dimenticato Bo Derek, mentre siamo restati tutti profondamente innamorati di Michelle Pfeiffer, non ci siamo certo scordati (come avremo potuto?) d'essere stati fidanzati con Brigitte Bardot, quarant'anni or sono; e perfino Gilda, Rita Hayworth, riesce ancora a riscaldarci le viscere (quanto meno, intendiamoci, quelle della memoria). Io, infatti, penso per film. Mi rivedo, ragazzino, bere western e retoriche pellicole sui marines nei cinema all'aperto della mia Firenze di cinquant'anni fa; ripenso a Porto delle nebbie come alla pellicola che mi ha introdotto nel "grande" cinema, ma continuo ad aver nostalgia anche non solo per Hitchcock, ma anche per Carné e per Ford, Il postino suona sempre due volte mi tiene ancora sveglio, quando lo becco di notte su una qualche rete televisiva, sia nella versione del '46 con la dark lady Lana Turner sia in quella del 1981 con un'indimenticabile, fragile, sensualissima Jessica Lange. Ma ho nostalgia anche e perfino, ebbene sì, dei polpettoni di cappa e spada con Errol Flynn e di quelli della serie Dracula col vecchio caro Christopher Lee. Va da sé che, quando sono sicuro che nessuno mi vede, torno non dico a Totò e a Sordi - quello va da sé - ma anche a Mel Brooks, magari perfino a Villaggio, a Verdone, che Dio mi perdoni, perfino a Pozzetto. Non oltre, naturalmente. Con la signora Marini e con Alvaro Vitali non sono mai sceso a patti.

Poi ci sono i "miei" film: quelli che se potessi non mi stancherei mai di rivedere. Non sono molti: e proprio per questo ho un forte imbarazzo della scelta quando si tratta di parlarne. Il mio regista preferito è comunque senza dubbio, dovendo scegliere, Ingmar Bergman, quello che più direttamente e profondamente ha parlato alla mia generazione nutrita di Freud, di Jung, di Kierkegaard, di Nietzsche e di Sartre: la generazione che non aveva visto la guerra (o ne aveva solo qualche ricordo-lampo) ma che era cresciuta tra le sue macerie, che si andava interrogando sugli orizzonti perduti dei grandi ideali e sulla foresta delle grandi illusioni. Il settimo sigillo è il film che vorrei far vedere ai miei nipoti (il primo, quindicenne, comincia ad essere in età di capirci qualcosa; gli altri due sono troppo piccoli) per cercar di spiegar loro che cosa sia la vita: ammesso che io lo sappia, che lo abbia intuito se non compreso. So bene che, sulle prime, sarei frainteso: può sembrare una pellicola "storica", sul Medioevo: e infatti, come tale, regge molto più di altre che sono invece storicamente parlando più ambiziose (e dal canto mio mi capita di associarlo sempre più spesso a L'armata Brancaleone: un paragone che non ritengo affatto né irrispettoso, né blasfemo, né troppo scherzoso).

Quel che mi colpì prima di tutto nel '58, quando lo vidi la prima volta (era uscito nel '57), fu la fotografia: lo scabro bianco-nero del quale Bergman è maestro, lo stesso de Il posto delle fragole

    

Poi mi colpì, allora, l'aspetto "veritiero" se non addirittura "veridico" di quel Medioevo, che intuii e giudicai subito come profondamente "mio". Ero difatti un cultore appassionato - e, coi mie i diciotto anni, ingenuo - di quel Medioevo che sognavo di studiare all'università (una cosa che del resto ho poi fatto, rendendomi conto in tal modo di che cosa significhi l'eterogenesi dei fini). Evidentemente mi sbagliavo: ero caduto in una trappola che non mi era stata del resto affatto tesa; avevo visto e sulle prime giudicato con occhi relativamente assuefatti ai film "storici" una pellicola che conteneva un messaggio rigorosamente esistenzialista, non avevo compreso che quel film là non andava assolutamente visto con i medesimi occhi con i quali si poteva guardare non dico La disfida di Barletta, ma neppure l'Aleksander Nievskji o La passione di Giovanna d'Arco.

Gli adolescenti possono anche fingere di apprezzare quello che non capiscono; ma amano quello che sanno riconoscere. Nel Settimo sigillo individuai e apprezzai fino alla passione le cose che avevo imparato di un Medioevo avvicinato soprattutto da autodidatta, sia pure con qualche buona lettura, come L'autunno del Medioevo di Huizinga o Movimenti religiosi e sette ereticali di Volpe. Amai le citazioni del "Cavaliere, la morte e il diavolo" di Dürer, quelle della Danza Macabra, della Peste Nera, della caccia alle streghe. Era un Medioevo che avrebbe dovuto insospettirmi, sembrarmi troppo convenzionale: ma allora mi affacciavo alla vita e allo studio, il convenzionale era per me una vittoria, era perfino nuovo e originale. Non compresi quindi che Bergman mi poneva in realtà dinanzi ai grandi archetipi dell'esperienza esistenziale, che il "suo" Medioevo non era il periodo storico grosso modo compreso tra la caduta dell'impero d'Occidente e la scoperta del nuovo mondo, bensì la vita colta nel suo mistero, l'"età di mezzo" tesa tra due misteri che, se la fede non contribuisce a diradarne il buio pauroso e a conferir loro un senso, restano il Nulla, ben più terribile della Morte e del Diavolo. Il Nulla nel quale lo scudiero Jons invita il cavaliere Antonius Blok a specchiarsi, mentre questi affronta l'angoscia del passo decisivo; mentre, dal canto suo, lo scudiero accetta a sua volta di entrare nel Nulla, ma dichiara di farlo ribellandosi.

«Ribellarsi, questa è la nobiltà dello schiavo: la vostra nobiltà sia l'obbedienza»: così insegna Nietzsche nel Così parlò Zarathustra. Ma nel livido, tempestoso mattino, successivo alla notte del passaggio dell'angelo dell'abisso, l'artista girovago Jot e la sua famiglia si accorgeranno di esser vivi, scampati alla fine; e capiranno che la carità del cavaliere li ha salvati, consentendo loro di ucciderli attraverso uno stratagemma giocato alla Morte durante la loro lunga partita a scacchi. La Morte non si può vincere: capita comunque di poterla eludere, talvolta, e ciò è bene a patto che ne valga la pena. Il cavaliere reduce dalle crociate, salvando l'umile famiglia di attori nomadi, ha assolto ancora una volta al suo compito di difensore degli umili e degli oppressi. E sono loro, gli umili, che restano in vita; che ereditano la terra. Un grande esistenzialismo fedele a Nietzsche e a Kierkegaard, ma ben più nobilmente umano rispetto alla cupa miseria dell'annoiata disperazione sartriana.

 

2 - Fedele al testo Il Signore degli Anelli al cinema

John Ronald Reuel Tolkien

La versione filmica de Il Signore degli Anelli è molto meno infedele al testo e allo spirito della grande saga tolkieniana di quanto si sarebbe potuto temere: rallegriamocene. Ma con prudenza: ché un conto sono le intenzioni del regista e del soggettista, un altro gli esiti che un qualunque film tratto da un'opera letteraria possono produrre negli spettatori. Le orde di uomini, donne, giovani e giovanissimi e bambini che in queste settimane hanno preso d'assalto le sale di proiezione di tutto l'Occidente sono solo in modestissima misura costituite di persone che hanno sul serio letto l'opera maggiore di Tolkien; fra essi, una minoranza infima è in grado di contestualizzarla all'interno degli altri libri tolkieniani che è necessario conoscere per entrare nello spirito di essa, vale a dire quanto meno Lo Hobbit e Il Silmarillion; e sono ben pochi, tra questi ultimi, quelli in grado di padroneggiare la problematica complessa che a queste opere presiede, il rapporto fra la fede cattolica di questo grande studioso inglese, nato da una madre presto convertitasi al cattolicesimo, e il suo impegno di filologo e di medievista e la sua fantasia mitopoietica.

Siamo perseguitati da parecchi decenni da una storia di genere kitsch che ci arriva dagli Stati Uniti d'America: improbabili e di solito abbastanza ributtanti mostracci e mostriciattoli, accompagnati dagli effetti speciali alla Steven Spielberg, si sono impadroniti del cinema imponendo un genere sado-maso-horror spesso accompagnato alla ricostruzione fantastica di saghe epiche ambientate in «universi paralleli». A questa già dubbia miscela si è aggiunto un ritorno alla fantasia magica, com'è attestato dal successo dei libri e del film dedicati ad Harry Potter. Ora, che cosa potranno capire i nuovi fans di Tolkien, quelli che ai suoi libri giungono dopo averne vista la versione cinematografica, e che, digiuni di autentici miti e di archetipi ben compresi, poco o niente sanno di saghe, di letteratura cavalleresca, e magari hanno attinto le «leggende del graal» attraverso le grottesche deformazioni d'una letteratura occultistica da tempo arrivata ormai nelle edicole e le ambigue affabulazioni del new age?

Natura serena e schiva ma tormentata da segrete inquietudini, John Ronald Reuel Tolkien - nato in Sudafrica nel 1892, residente in Inghilterra dall'età di tre anni circa, convertito al cattolicesimo con la madre nel 1900 - aveva cominciato a organizzare il suo mondo di «fiabe perdute» fin dal 1917, quando aveva 25 anni. Filologo e specialista di letteratura inglese medievale, docente a Oxford fin dal 1925, egli aveva partecipato all'eterogeneo cenacolo degli «InglinKs», umanisti anti-modernisti, e aveva per lunghi anni accompagnato la crescita segreta del suo mondo di miti. Il Signore degli Anelli è in realtà una trilogia, pubblicata fra 1954 e 1955. Pochi anni dopo, con la nascita del movimento hippy, quello strano fluviale poema in prosa dove si parlava di maghi, di talismani e di avventure divenne una specie di Bibbia dell'esperienza esistenziale alternativa. Tolkien lo aveva detto con chiarezza: letteratura di «evasione» sì, ma nel senso di «evasione del prigioniero», cioè del prigioniero di guerra, che evade per tornare a combattere; non in quello di «fuga del disertore», che scappa per salvare la pelle e viene meno così facendo al suo dovere.

Negli anni Sessanta-Settanta (Tolkien sarebbe morto, ottantunenne, nel 1973) il successo dello scrittore inglese raggiunse l'Europa: e lo si guardò come un fenomeno «di destra» appunto perché postulava l'«evasione del prigioniero», la scoperta di modelli e di prospettive di tipo alternativo rispetto al determinismo materialista e al «pensiero unico di tipo marxista che in quegli anni costituivano l'atmosfera che quasi uniformemente si respirava a livello intellettuale. Qualcuno, superficialmente, giudicando il mondo mitico di Tolkien e i suoi dèi, parlò di «neopaganesimo», suggerendo che si potesse trattare quasi di un esperimento di fantasia neonazista. Era una calunnia infame: Tolkien, che aveva orrore di Hitler, gli rimproverava anche questo, l'aver inquinato l'immagine dell'antica mitologia germanica piegandola alla sua perversa propaganda. Ma, dinanzi al conformismo di quegli anni, quella fuga nel mondo dei maghi e degli anelli incantati era salutare.

Da allora, troppa acqua è passata sotto i ponti. Il materialismo dialettico è scomparso, per lasciare il posto a un materialismo volgare fatto di consumismo e di corsa al profitto e al successo. Ma l'angoscia che nel mondo occidentale si è diffusa come contraccolpo di questo inaridirsi di prospettive ha generato, fra le altre cose, un «ritorno selvaggio del sacro» che a sua volta si è tradotto in infinite mistificazioni pseudoreligiose e neoreligiose cavalcate da sette e conventicole neo-orientali, neoceltiche o sedicenti tali. Dinanzi a questa confusione dove allignano perfino pennellate di ridicolo satanismo, dinanzi a questo balbettar di falsi e nuovi miti che scopre al tempo stesso l'incapacità di attingere correttamente al Sacro e di servirsi in modo ordinato della fantasia, ma anche il bisogno dell'uno e dell'altra, Tolkien va riletto non già lasciando spazio a un libero gioco fantastico che quasi nessuno sembra avere più gli strumenti per sostenere, bensì procedendo a una sua rigorosa rifilologizzazione.

Tale scelta ci conduce a sottolineare quel che, sotto l'aspetto della saga pagana c'è in Tolkien di profondamente cristiano, anzi cristiano-cattolico. Che cosa? Assolutamente tutto. E cominciamo pure dallo stile del Silmarillion, che parla di antichi dèi immaginari ma suggerisce una tematica profondamente e radicalmente monoteista e creazionista, ispirata direttamente allo stile biblico (nel 1960 Tolkien collaborò alla traduzione della «Bibbia di Gerusalemme» dal francese all'inglese). Per proseguire poi in un'analisi sul carattere cristico della figura di Aragorn come Sovrano del Secondo Ritorno, al pari di Artù - ma anche e soprattutto del Cristo - rex venturus; e su analogo carattere di quella di Frodo Baggins, il «portatore dell'Anello» che si carica del malvagio potere dell'oggetto terribile come il Cristo si è caricato della croce di tutti i peccati del mondo. Si è parlato de Il Signore degli Anelli come di un «romanzo manicheo», dove Bene e Male si distinguono chiaramente: Giorno contro Notte, Luce contro Tenebra. Niente di più falso. Nel romanzo, trionfa proprio il grigio: il colore dello stregone Gandalf. Bene e Male si mischiano di continuo, come nella vita degli esseri umani. La vera grande vittoria del bene è quella che Frodo riporta dentro e contro se stesso, rinunziando al potere dell'anello.

Ma questi dati fondamentali sono del tutto trascurati e sconosciuti almeno a livello massmediale: dove trionfa la lettura di Tolkien, specie dopo il successo del film, in termini di semplice heroic fantasy e di ambigua spiritualità di tipo new age. Nel mare di sciocchezze scritte e pubblicate di recente al riguardo, poche cose si salvano. Segnalo Le radici non gelano. Il conflitto fra tradizione e modernità in Tolkien, di Stefano Giuliano (ed. Ripostes) e Tolkien, Il mito e la grazia, di Paolo Gulisano (ed. Ancora). Significativamente, sono solo alcuni piccoli coraggiosi editori a prestar voce alle voci più giudiziose, naturalmente minoritarie. Il resto è consumismo volgare, maghi da baraccone e draghi di plastica aggravati dai trucchi informatici.

L'Occidente opulento e sicuro di aver ragione rischia di confondere Aragorn con Bush e Sauron con Bin Laden: e non si rende conto di quanto sia pericolosa l'avanzata del Saruman globalizzatore, di quanto sia urgente liberarsi dell'Anello del nuovo materialismo.

  

3 - Scott alle crociate: scontro di civiltà?

Ridley Scott

Non fosse per null'altro, i cultori di cinema saranno in eterno grati a Ridley Scott per lo splendido Blade Runner del 1982, dove già si affrontava, del resto, il tema del Medioevo: sia pure non di quello passato bensì di quello "prossimo venturo", fin troppo liberamente ispirato al romanzo Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick. È regista colto, Scott, che ama misurarsi con la letteratura, la storia e il difficile campo del remaking. In quest'ultimo àmbito, tutti ricorderanno ohimè la cupa - in tutti i sensi - performance de Il gladiatore del 2000, ispirato fin troppo fedelmente a La caduta dell'impero romano del 1964.

Si dice da parte di alcuni informati e malevoli cinematografari che l'ambizione segreta di Scott, girando Kingdom of Heaven - che arriverà nelle sale italiane con il banale e maldestro titolo di Le crociate - era quella di far un altro remaking, magari stavolta meno fedele, ispirato a I crociati di Cecil B. de Mille: e in effetti, almeno nella scena del grande assedio del 1187 a Gerusalemme, una qualche ispirazione dall'analogo assedio di Acri del 1192 girato dal grande cineasta americano si potrebbe cogliere (come vi si coglie l'eco de Il Signore degli Anelli).

Altre reminiscenze e talvolta citazioni del filone medievale hollywoodiano (Robin Hood, Ivanhoe, Riccardo Cuor di leone) si colgono in effetti qua e là, nella pellicola-fiume dedicata alla conquista musulmana di Gerusalemme del 1187 e dunque ai precedenti della cosiddetta "terza crociata". E, nella figura quasi protagonista del Saladino, la sottile filigrana ideologico-narrativa lascia trapelare le memorie del Lessing di Nathan il Saggio e del Walter Scott de Il Talismano. Un film dunque colto, questo dedicato all'epopea medievale delle guerre per il possesso della Città santa? Ambizioso, certo; ben recitato, a parte stereotipi e scivolate, nel complesso sì; semicolto e velleitario, almeno dal punto di vista storico, questo va detto. E attualizzante, secondo uno "schema a tesi": ma, visto l'argomento e i tempi che corrono, c'era da aspettarselo.

Salto a piè pari l'aspetto propriamente filmico della pellicola, che non sono in grado di giudicare. Parliamo di storia. Quel che lascia, più che perplessi, un po' delusi e seccati è il poco felice mixing di fiction e di pretesa "verità" storica, secondo la formula - cara a Ridley Scott - dell'intreccio fra una storia intima e un grande scenario. E quel che dà francamente fastidio è la continua allusione a fatti e situazioni del presente, con un linguaggio che scivola sovente nell'anacronismo involontariamente comico e uno stucchevole insistere sui soliti temi della pace, della tolleranza, del dialogo trattati con conformistico ossequio della political correctness.

Ma andiamo per ordine. Francia, 1184. Il fabbro Balian, in crisi per la perdita dei suoi cari, riceve la visita del nobile Goffredo d'Ibelin, proveniente dalla Terrasanta, che gli rivela di essergli padre naturale. Goffredo morirà, dopo avergli affidato il compito di continuare la sua missione di difensore del Santo Sepolcro. Balian arriverà quindi in una Gerusalemme assediata dal Saladino, dove il valoroso e sfortunato Baldovino IV, lebbroso, e la bella Sybilla candidata a succedergli, hanno a che fare con l'inetto e ambizioso Guido di Lusignano promesso sposo della principessa e una banda di avidi e sanguinari signori feudali crociati e di templari (potevano mai mancare?) tanto feroci quanto fanatici. Baldovino morrà di lì a poco, i crociati saranno sconfitti in una battaglia campale e Gerusalemme sottoposta a un assedio che terminerà con un'onorevole resa dei cristiani. Grazie alla lealtà del Saladino, Balian tornerà nella sua dolce Francia insieme con la non meno dolce Sybilla, lieta di non esser più regina.

Un po' ridicolo il generoso ricorso alla parola "crociata" da parte dei personaggi (il termine non entrerà nel linguaggio ordinario prima del Quattrocento: quelli del XII secolo erano alle crociate, ma non lo sapevano). Decisamente stucchevoli e inopportuni sia lo schema "ideologico" - tutto giocato, nel campo cristiano come in quello musulmano, sul contrasto tra i "falchi" che vogliono il "conflitto di civiltà" e le "colombe" desiderose di "dialogo" -, sia le correlative velleità moraleggianti e attualizzanti. Per quanto alla fine i musulmani, se non altro grazie a un Saladino affascinante e tutto sommato abbastanza fedele alla realtà storica, ci escano meglio dei cristiani. Per cui non si capisce proprio che cos'abbiano da protestare contro la pellicola di Scott quelli dell'«American-Arab Anti Discrimination Committee di Washington», che di storia debbono saperne davvero pochino.

La realtà storica, dunque: ammesso che a qualcuno interessi. Gli Ibelin, nobile schiatta aristocratica "franca" di Terrasanta d'origine forse pisana (guarda caso…) furono un'illustre famiglia del regno crociato di Gerusalemme: il loro castello principale era a una decina di chilometri da Lydda, dove oggi c'è l'aeroporto internazionale di Lod. Baliano II d'Ibelin fu effettivamente, insieme con un altro aristocratico franco, Ugo di Tiberiade (chiamato col buffo nome proprio di Tyberias nel film), l'eroico e saggio difensore di Gerusalemme nell'autunno del 1187, allorché - morto da due anni il saggio e sfortunato re-lebbroso Baldovino IV e passata la corona alla di lui sorella Sybilla e al marito, l'inetto Guido di Lusignano - il Saladino, dopo aver battuto i crociati nella battaglia di Hattin in Galilea del luglio precedente, l'assediò con forze soverchianti. Alla fine si trovò un accordo, e il principe musulmano lasciò uscire gli abitanti cristiani di Gerusalemme dietro modico riscatto, addirittura condonato ai più poveri. Non risultano storie d'amore tra Baliano, che non ha mai fatto il fabbro in Francia, e Sybilla.

Nel film affiorano qua e là alcuni personaggi storici effettivi - il feudatario Rinaldo di Chatillon, il maestro templare Girard de Ridefort, il patriarca Eraclio - ma sono regolarmente fraintesi e caricaturizzati in modo inutile, goffo e arbitrario. Un fanatico mullah che molesta con le sue pretese il Saladino è tanto meno credibile in quanto il celebre emiro, curdo di nascita, era sunnita, laddove i mullah sono notoriamente sciiti. Lo sceneggiatore sembra aver ridotto a una lotta tra "moderati" e "fondamentalisti", goffamente allusiva al presente, quella che alla vigilia della terza crociata si svolse effettivamente in Terrasanta, ma ch'era lotta tra due fazioni aristocratiche del regno crociato per impadronirsi del potere. Qua e là, qualche perla cronistica sceneggiata alla lettera: come nella scena dell'incontro tra il vinto re Guido e il Saladino nella tenda sul campo di battaglia di Hattin, che segue fedelmente il racconto di uno storico arabo coevo.

Pagliuzze di storia, in un mare di fantafeuilletonismo: un'occasione perduta, perché si sarebbe potuto essere ancor più avvincenti restando fedeli a una realtà storica del resto ben conosciuta e oggetto di studi critici molto solidi. Sarebbe bastato un salto a Princeton o a Milwakee: invece gli sceneggiatori hanno preferito aggirarsi per le "sale delle crociate" che Napoleone III dedicò, a Versailles, all'epopea medievale riletta in chiave romantica e colonialista. Peccato.

  

 

       

       

   

©2003-2008 Franco Cardini, da «l'Avvenire».

    

 


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