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                   Il castello delle ombre   Recensioni, articoli, saggi sui film sul Medioevo o di "atmosfera" medievale     a cura di Vito Attolini

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Serena D'Arbela

  

  

L’uscita sugli schermi del film di Ridley Scott Le crociate - Kingdom af Heaven in un periodo di interrogativi e dibattiti sui rapporti fra civiltà e culture d’oriente e occidente ha riproposto anche sulla stampa domande sulle rievocazioni (e revisioni) bibliche, dell’antichità greco-romana e della cristianità, soprattutto hollywoodiane. Perché questo interesse del cinema americano per il grande passato e che tipo di rappresentazione ce ne ha offerto ieri ed oggi? La ragione economica ci sembra la spiegazione fondamentale. I kolossal, malgrado gli enormi costi di realizzazione, sono sempre stati, grazie al gusto del grandioso e dello spettacolare del pubblico americano, fonte di grossi profitti per le case di produzione.

Dopo i filoni dell’epopea del west, ancor prima dei generi fantascientifico e catastrofico, successo e dollari sono venuti col cinema storico e mitologico di cartapesta. Sacralità e coraggio, crudeltà e magnanimità sono ingredienti sicuri come i protagonisti, selezionati secondo gli orientamenti popolari e gli obbiettivi politici del tempo. Emulando e a volte superando le prime invenzioni ad effetto del cinema italiano, che sfruttavano lo stile da “feuilleton” ed esploravano la grandiosità scenografica (Quo Vadis, 1913, di Guazzoni e Cabiria, 1914, di Pastrone) i registi americani si gettarono a loro volta nell’avventura peplica. Per fare delle citazioni: Griffith, Olcott e Niblo autori di Ben Hur, De Mille, Wyler autore di un terzo Ben Hur, Kubrick con Spartacus, Mankiewicz con Cleopatra e nel 2000 Ridley Scott con Il Gladiatore, e i più recenti Wolfgang Petersen con Troy, ispirato all’Iliade ed Oliver Stone con Alexander (Alessandro il Macedone).

Sappiamo che non è il senso degli eventi storici, narrati senza rigore, ad interessare gli spettatori, ma le dimensioni e la carica di emozione gratuita, quei sentimenti primordiali da stadio suscitati dalle situazioni
pericolose, dalle competizioni di armati e
dagli scontri grandguignoleschi, con litri di colore di sangue fittizio che soddisfa le pulsioni crudeli e le ansie segrete di giustizia inappagata. E qua e là, gli amori celebri ed oleografici di personaggi, fissati da secoli in rappresentazioni approssimative. Per il grosso pubblico, il kolossal è disimpegno, soprattutto intrattenimento e fuoco d’artificio di brevi passioni primitive. Non lascia traccia di giudizi nell’anima né approfondimenti di interpretazioni.

Forse non tutti sanno che la scelta dei soggetti biblici e greco-romani fece e fa risparmiare le case produttrici ambientando i set prima in Europa poi in Africa con budget ridotti quanto a tariffe sindacali,
comparse, collaboratori e l’offerta di sfarzosi
scenari di antichità e paesaggi già pronti in loco.

A causa di questi scoperti fini spettacolari, soprattutto d’azione, il genere non ha troppo impegnato la critica sui contenuti. Non è una novità che il filone epico-avventuroso privilegia i momenti forti ai fini del coinvolgimento dello spettatore, rafforza le tinte, sceglie i suoi personaggi simbolo forzando i personaggi reali, favorisce le leggende, avvalora ipotesi assolute. Le sceneggiature seguono schemi particolari secondo le esigenze politiche e di mercato. Se la Storia tramandata è già di per sé un grande spazio ambiguo e discutibile, figuriamoci se possiamo coglierla nelle facilonerie descrittive, nelle trovate fumettistiche e nelle incongruenze di queste rievocazioni di plastica. Forse questi film hanno potuto corroborare nel grosso pubblico l’idea della superiorità dei romani, dell’occidente e della Chiesa a scapito di tutti gli altri, “barbari”, turchi, saraceni e dei loro capi, alcuni celeberrimi come Attila o come il “feroce Saladino”. A suo tempo ci furono però nel Ben Hur di Fred Niblo del 1925 immagini negative della romanità che non piacquero al regime fascista.

Cosa ci porta di nuovo la visione di queste Crociate? Forse solo un auspicio alla tolleranza, come la situazione attuale del mondo richiede e gli accenni allo spirito di rapina, poco celestiale, di terre e mercati da parte dei crociati. Il messaggio che trapela dal film girato in Marocco ed in Spagna sembra opporsi agli integralismi, da una parte e dall’altra. Si insinuano nella trama massime morali che sembrano in contrasto con le teorie di guerra preventiva e mostrano i vantaggi del dialogo sulla pratica aggressiva. Sono le nuove direttive di convivenza tra cristiani ed islamici recepite da Hollywood? Un briciolo di equità per correggere le semplificazioni storiche sui rapporti tra Oriente e Occidente?

«Si compiono troppi crimini in nome di Dio» afferma in una sequenza Tiberias, consigliere di re Baldovino e capo dell’esercito cristiano. In nome di Dio combattono i Cavalieri di Goffredo di Buglione alla difesa di
Gerusalemme e in nome di Allah,
ancora Dio, i cavalieri musulmani del deserto per riprendere la città. Da entrambi i lati preme l’ombra consistente della terra rivendicata come propria. Serpeggia nella fiction
hollywoodiana un’interpretazione
più blanda, anche se riduttiva, dei fatti nel distribuire le opposte responsabilità di massacri e ingiustizie. Il resto è spettacolo, dovuto alla grande maestria tecnica del regista britannico e ai 150 milioni di dollari di budget.
Come in ogni film d’avventura ritroviamo gli stereotipi. Tra i credenti, il coraggioso, un fabbro (inventato) di nobili origini ed intenti anche se non del tutto puro nei metodi (Balian di Ibelin) e i malvagi (il capitano dei cavalieri Templari, Reginaldo), gli astuti accaparratori di beni e potere (Guido di Lusignano), i moderati (Tiberias) insieme ai rozzi scalmanati e ai sadici, con esagerazione dei ruoli ma con verità valide anche oggi. In campo nemico il capo islamico saggio e negoziatore (Salah Al Din) che rispetta il suo avversario, i beduini muniti di codice d’onore ed altri arabi tracotanti e fanatici. L’ottimo attore siriano Ghassan Massoud offre di Saladino un ritratto convincente, mentre l’inglese Orlando Bloom (Balian) conferma solo la sua avvenenza. La vicenda di fine 1100 nell’arco della terza Crociata, con la sfida intorno a Gerusalemme, ha un vago sapore allusivo rivolto al presente. Fa pensare che tutto si ripete. Le spartizioni del mondo si perdono nella notte dei tempi. Gli eventi si alternano, le geografie politiche si capovolgono, le razze o etnie prevalgono, s’inglobano, scompaiono. O ritornano.

Che le Crociate fossero movimenti complessi dove vessilli e moventi religiosi s’incrociavano con spostamenti di folle spinte da carestie e fame, insieme a progetti di conquiste territoriali e ambiziose mire economiche che trainavano pochi prodi e molti avventurieri, già si studia nei licei e si può approfondire all’università. Per un occhio attento, il film, malgrado il vuoto che dopo tanto frastuono lascia dentro, può illustrare l’essenza della guerra, l’insensatezza, questo ininterrotto distruggere, uccidere ed essere uccisi mentre i dissensi potrebbero trovare altre vie di soluzione. Turbinio d’armi bianche, roteare di ferri, lampi di fuoco, strumenti di distruzione vecchi e nuovi, mura e fortificazioni che resistono o cedono, corpi che volano trafitti, che rotolano e giacciono in campi di battaglia o sotto cumuli di macerie. Sangue, sangue, ieri come oggi. Morti inutili, accolte con onore o con rassegnazione, con paura e coraggio, sublimate con ideali trascendenti o teorici, crudeltà compiute in nome di Dio o del progresso, della patria o dell’etnia. Il condensato di plastica e le moltiplicazioni elettroniche di comparse ci mostrano infine il prezzo e la sostanza di una Storia fatta di flussi, riflussi e di concime umano.

Qualcuno si chiede perché anche il cinema italiano non affronti questi temi monumentali. Per ragioni squisitamente finanziarie? Per indifferenza del pubblico? Io credo che esista da noi una specie di memoria tramandata sul relativismo degli imperi e delle guerre. Da secoli le nostre popolazioni conoscono per esperienza, di padre in figlio, assestamenti e contrasti etnici e politici sul territorio e scorribande di stranieri pari alle proprie imprese di invasione dei territori altrui. Periodi di grande potenza e fasi di decadenza estrema. Di qui una coscienza relativistica della Storia, una sazietà diffidente, unita al rigetto più recente per il ridicolo della “romanità” mussoliniana del ventennio. Qualcuno ricorda la magniloquenza della pellicola Scipione l’Africano di Carmine Gallone (1937), considerata preparatoria dell’impresa coloniale in Etiopia, esempio scoperto di metafora propagandistica.  

Non a caso generi più veri e lapidari hanno preso piede nel dopoguerra. Il ricordo concreto dei periodi bellici del Novecento ha inciso direttamente su tre generazioni lasciando echi d’inquietudine nelle tre o quattro successive. Si è affermata con il Neorealismo una narrazione più diretta e veritiera di angolazione sociale, riguardante la resistenza, il mondo contemporaneo le lotte e i problemi del lavoro. Questo cinema si è sempre incarnato pur con uno sfondo di fatti reali in una dimensione individuale ed umana, anche nelle fasi più dure delle utopie sociali. Ha in qualche modo risposto alla maniera italiana di sentire la storia come vissuto e identità, legato alla terra, alla casa, alla famiglia, al pane. È divenuto via via più problematico, ha guardato ai fatti italiani più recenti e al Risorgimento, scovandone le contraddizioni, anche spaziando in Europa con registi come Visconti, Taviani, Rossellini. Lo sguardo
sul Medioevo e sulle traversie del
Papato ha trovato rappresentazioni mordenti nel genere satirico di Fellini, nel comico, burlesco di Monicelli, Magni.
Di qui bisogna ripartire.

L’epica cinematografica è tramontata? La guerra di conquista, sia ideologica che territoriale non sembra
attrarre i giovani italiani, portati
piuttosto ad un internazionalismo culturale. Lo provano le tendenze: i viaggi, l’aggregazione musicale, il desiderio di globalizzazione sociale. Anche la propensione diffusa per il pacifismo sembra confermare uno stato d’animo generale. La guerra è vista tutt’al più come ultima ratio difensiva. Nel deserto culturale del business contemporaneo, che ha estromesso ogni modello ideale e ogni corretta cognizione storica, vedo lo spazio non per una produzione di kolossal nostrani (la falsificazione televisiva è più che sufficiente!) ma per un cinema di contenuto, intenso, affilato, a misura d’uomo, che superi l’attuale media di minimalismo psicologico (pur dignitoso) su cui siamo attestati. Necessita una spinta entusiasta al sapere, sui temi del presente e della storia, una maggior consapevolezza delle nostre origini e dei legami coi popoli che ci hanno preceduto ed affiancato. Ed una rilettura delle religioni e delle filosofie del mondo troppo a lungo ignorate.

    

   La recensione di Vito Attolini

Vito Attolini - Raffaele Licinio, Le Crociate di Ridley Scott. Miniforum tra uno storico e un critico cinematografico

Silvia Bizio, Parla Ridley Scott: Il mio kolossal di pace

  Franco Cardini, Scott alle crociate: scontro di civiltà?

LE ALTRE RECENSIONI: Pasquale Bonfitto, Le Crociate

LE ALTRE RECENSIONI: Marco Cortese, Le Crociate

LE ALTRE RECENSIONI: Giuseppe Losapio, Le Crociate

  

 

   © 2005 Serena D'Arbela, da «Patria indipendente», mensile dell'ANPI, 30/9/2005 (e dal «Corriere della sera - Corriere del Mezzogiorno»)

    


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