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testo di Francesco Mastromatteo |
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Il signore degli Anelli: La Compagnia dell’Anello; Le due Torri; Il ritorno del Re
(The Lord of Rings: The Fellowship of the Ring; The Two Towers; The Return of the King)
di Peter Jackson, 2001, 2002, 2003
schede: la Compagnia dell’Anello - Le due Torri - Il ritorno del Re
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La trilogia de Il signore degli Anelli di Peter Jackson, suddivisa nei tre capitoli La Compagnia dell’Anello, Le due Torri e Il ritorno del Re, è stato non solo il fenomeno cinematografico di inizio millennio (la più grande produzione di tutti i tempi, con tre film girati nel giro di un anno e mezzo, un incasso tra i maggiori di sempre insieme all’altra grande trilogia, Guerre stellari, ed il record, eguagliato solo da Ben Hur e Titanic, delle 11 statuette dell’Oscar conquistate), ma anche il primo tentativo compiuto di trasposizione cinematografica dell’opera di J.R.R. Tolkien (se si eccettua una versione a cartoni animati curata dagli studios della Rankin-Bass), dopo i progetti, rimasti sulla carta, di registi e produttori del calibro dei Beatles e di Stanley Kubrick, mentre quello di John Boorman, se pure non fu neanch’esso realizzato, venne ampiamente sfruttato dal grande regista inglese nella stesura della sceneggiatura di più di una scena del suo capolavoro, Excalibur. Va quindi innanzitutto dato atto al regista neozelandese di avere avuto il coraggio di cimentarsi con una storia che, per quanto a livello letterario fosse già un cult per milioni di lettori in tutto il mondo, non era affatto semplice riportare sul grande schermo. Un fenomeno planetario che come tutti i successi commerciali che si basano sullo sfruttamento di un prodotto culturale, reca con sé conseguenze ambivalenti. Coloro che conoscevano già Il signore degli Anelli come libro, i tolkieniani “della prima ora”, si sono divisi in estimatori soddisfatti dalla trasposizione e in “puristi” critici e scettici sull’effettiva capacità dei film di invogliare alla lettura, mentre il resto del pubblico, quello ignaro, ha scoperto un mondo che non conosceva. Non sappiamo in che misura la trilogia di Jackson abbia invogliato gli spettatori alla lettura e all’approfondimento culturale del libro (anche se le vendite si sono improvvisamente impennate), ma una cosa è certa: un pubblico di massa senza precedenti è venuto a conoscenza, in maniera più o meno consapevole, di quel grandioso mondo di miti che è il Medioevo fantasy di Tolkien. Se vogliamo collocare la saga creata dallo studioso inglese all’interno di una categoria in relazione alla differenza esistente tra quello che è stato definito Medioevo immaginifico (frutto della fantasia, ma basato su un substrato culturale non privo di una sua correttezza scientifica), ben studiato dallo storico lituano Iurgis Baltrusaitis, acuto studioso di simbologia e iconografia, nelle sue rappresentazioni artistiche dell’età di mezzo, contrapposto a quello immaginario (ovvero avulso da qualsiasi criterio storicamente fondato e filologicamente corretto, come certi castelli stile finto-medievale dei parchi di divertimenti disneyani), possiamo senz’altro dire che essa rientra a buon diritto in quella del Medioevo immaginifico, anzi, ne è sicuramente l’espressione più coerente e grandiosa nella storia della letteratura, quella che dopo aver rinverdito un genere considerato ormai superato e inferiore all’imperante romanzo psicologico e realistico, ha dato il via alla fioritura della moderna produzione fantasy (pur se questa non appare paragonabile, per impianto teorico e contenuti, al modello). Tolkien, uno studioso e un docente di filologia germanica e un appassionato di linguaggi “alternativi”, molti dei quali ideati da lui, fu fin da giovanissimo interessato al problema della mancanza, nella tradizione anglosassone, di un compiuto e organico corpus di miti paragonabile a quelli di altre culture (e che lui attribuiva in parte alle conseguenze dell’invasione normanna), considerato anche il malcelato disprezzo con cui l’ambiente accademico britannico, contro il quale Tolkien non mancò di polemizzare nella sua raccolta di saggi Il medioevo e il fantastico, snobbava e sottostimava persino quei poemi epici da lui tanto amati e studiati, come il Beowulf, che supplivano sia pur parzialmente a questa lacuna e che lo studioso considerava un vero e proprio anello di congiunzione tra la tradizione inglese più antica e la cultura cristiana posteriore. Iniziò così a creare, basandosi in parte sulle saghe nordiche, norreniche e anche celtiche, una vera e propria mitologia, con le sue cosmogonie e le sue genealogie di popoli e stirpi, ciascuna con la propria storia, la propria cronologia di eventi, le proprie caratteristiche peculiari e le proprie tradizioni e, persino inventando ex novo delle lingue, come fece con quella degli Elfi (di cui nel film vengono riportati parecchi dialoghi originali) partendo da una base grammaticale finnica; non a caso è stato efficacemente definito “un architetto di universi fantastici”. La sua è un’opera a metà tra la rapsodia omerica, la “ricucitura” di poemi e racconti antichi, e la produzione di miti. Ma quando parliamo di fiaba e di mito, dobbiamo tenere ben presente cosa Tolkien intendesse per essi: una vera e propria sub-creazione di un mondo secondario non meno autentico e reale del nostro, coerente e dotato di una sua logica. Una concezione, la sua, molto medievale: la produzione artistica umana vista come imitatio Dei. Come lo storico delle religioni Mircea Eliade, il filologo Tolkien credeva fermamente che il mito è più vero della storia vera; o, per dirla con un paradosso, c’è più storia nel mito che nella storia stessa. Egli si considerava un “raccoglitore” e un trasmettitore di narrazioni epiche più che un inventore ex nihilo, a meno di non considerare l’“invenzione” nel senso più etimologico del termine, ovvero come “rinvenimento” di qualcosa che pre-esiste, è reale e non un frutto della fantasia, cioè una menzogna.
Ma accanto a questo che potremmo chiamare il “primo livello”, più superficiale, “pagano” del Medioevo fantasy tolkieniano, ovvero il racconto degli eventi e dei personaggi che ne sono protagonisti, c’e n’è un altro, più profondo ma anche più significativo, ed è quello della simbologia spirituale (che potremmo definire il Medioevo “cristiano” di Tolkien) sottesa a tutta l’opera. Se l’allegoria infatti rimanda ad una identificazione metaforica e indirettamente allusiva operata dall’autore tra la figura o il personaggio del racconto ed un’altra appartenente alla realtà di chi fruisce dell’opera, il simbolo invece appartiene ad un mondo reale, avente un senso di per sé e dal valore universale. L’autore mise da subito in guardia i lettori e critici, pur rimanendo inascoltato, dalla tentazione di interpretare in modo allegorico le sue storie, soprattutto applicando personaggi ed avvenimenti delle sue storie ai fatti dell’attualità più spicciola, specie politica. Dichiarò sempre di averle scritte prima di tutto per il divertimento dei suoi figli, i primi destinatari, senza premeditare intenti secondari, tanto meno ideologici. Ma fu lui stesso a scrivere, nel saggio su Le fiabe, che il mito non è altro che un’evasione dalla non esaltante realtà che ci circonda, un viaggio in altri tempi e in altri mondi, radicalmente diversi e migliori dal nostro, da cui si ritorna ristorati e rinfrancati: una “eucatastrofe”. Non una “fuga del disertore”, ma l’“evasione del prigioniero”, «la possibilità di attingere a realtà perenni e permanenti e non transitorie come le cose fugaci e fuggevoli della vita moderna». «Le fiabe parlano di cose permanenti, non di lampadine elettriche, ma di fulmini», come lo studioso stesso scrive nelle sue lettere. Ogni personaggio della fiaba quindi non è un’allegoria, ma un simbolo, un archetipo, un modello universale di principi e funzioni sacre che vanno oltre il contingente. Simbolo deriva da synballo, unisco: e nel Medioevo fantastico di Tolkien il simbolismo unisce piani distinti eppure legati tra loro, alto e basso, macrocosmo e microcosmo, materia e spirito, i popoli alla loro terra, gli eserciti ai loro condottieri, le stirpi ai loro sovrani, in una visione del mondo incontestabilmente tradizionale e religiosa, benché nessun accenno esplicito al Sacro venga mai espresso, e i personaggi non facciano mai riferimento al divino: «Il Signore degli anelli è fondamentalmente un'opera religiosa e cattolica; - scrisse Tolkien in una lettera ad un suo amico sacerdote - all'inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la religione, oppure culti e pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l'elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo. Tuttavia detto così suona molto grossolano e più presuntuoso di quanto non sia in realtà. Perché a dir la verità io consciamente ho programmato molto poco: e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so». Tolkien dunque lavorò alla stesura e a di questo immenso materiale (poi risistemato e pubblicato in forma più omogenea ne Il Silmarillion) per tutta la vita, attingendo al complesso di fiabe riguardanti la “Terra di Mezzo” per costruire la storia narrata ne Lo hobbit, una sorta di antefatto della vicenda che si sviluppa nell’epopea de Il signore degli anelli. Una coppia di archetipi che i film evidenziano bene è quella rappresentata da Gandalf e Saruman. Se Gandalf è il mago-sacerdote interprete della volontà superiore (impossibile non paragonarlo a Merlino, non solo per il suo ruolo ma anche per quel suo cappello a punta, la barba bianca e l’incedere maestoso e ieratico), Saruman, essendosi fatto sedurre dalla potenza dei mezzi a sia disposizione, ha perso di vista l’armonia ed il fine del Tutto. Il suo è un peccato di hybris, di sete di dominio, di presunzione e di superbia, che gli hanno fatto dimenticare l’autentica missione di colui che rappresenta un ponte tra Sacro e contingenza, tra realtà e mondo soprannaturale: custodire e proteggere il Creato, secondo le leggi che governano il cosmo. è l’apostata, il traditore che ha abdicato alla sua missione superiore è il cui tradimento è tanto più grave quanto più grande è il suo potere e più importante è la sua funzione. Ci si potrebbe chiedere come mai Gandalf, un potente stregone, non utilizza la magia per allontanare l’anello, o per far diventare buono Saruman; ma egli serve e non possiede il Bene, che non deve essere imposto con la coercizione. Se Gandalf ha la saggezza di non forzare gli eventi, ma di fornire un aiuto alle creature della Terra di Mezzo, Sauron è schiavo della sua volontà di potenza, la quale però - e la cosa diventa concreta visibile nella creazione dell’esercito di orchi - può generare solo mostri, ignobili parodie delle creature naturali; potremmo dire che in Saruman il potere sacro si fa abuso sacrilego, teocrazia. Il potere dell’Anello ed i suoi malefici effetti quindi determinano il comportamento di ogni personaggio, portandolo a schierarsi e ad assumere una posizione all’interno dello scontro in atto. Ciò è evidente nella contrapposizione tra Frodo Baggins e Gollum.
Sarebbe sbagliato cercare di individuare un protagonista unico e assoluto ne Il signore degli anelli, ma è senz’altro vero che Tolkien nella costruzione della saga e dei suoi punti-chiave aveva in mente soprattutto loro, gli Hobbit, i “mezzi-uomini” dai piedi pelosi, gli umili e gli ultimi che però si rivelano coloro a cui è destinato il compito più importante; e sono loro a incarnare quei valori di umiltà, amicizia, dedizione, abnegazione ed eroismo “dei piccoli”. Frodo ha ricevuto l’Anello e quindi deve provvedere alla sua distruzione; qualcuno di molto più abile e forte potrebbe sostituirsi a lui nella difficile impresa, eppure egli accetta una missione che avrebbe fatto tremare i polsi all’eroe più intrepido. Ma sarà un’impresa paragonabile alla salita al Paradiso di Dante; un iter di purificazione sia del mondo che di se stesso, una lotta contro il Male che è anche una pugna spiritualis interiore. Nella prima parte del viaggio, il compito è reso meno gravoso dal sostegno della Compagnia; ma poi questa è costretta a sciogliersi ed il peso dell’Anello diventa insopportabile, tanto che Frodo ha più volte la tentazione di arrendersi. Egli non potrebbe farcela, senza l’aiuto dei suoi amici: Pipino e Merry, che nonostante (o forse proprio grazie a) i guai combinati, contribuiscono alla causa comune, ma soprattutto il fedelissimo servitore Sam Gamgee, che non abbandona mai il padrone e lo sostiene nei momenti di sconforto. Sam è solo un giardiniere, non capisce e non potrebbe mai capire fino in fondo la posta in gioco, che è molto più grande di lui: tuttavia egli è certo, come dice nel terzo film che «Anche nei momenti più terribili, le persone buone possono sempre aggrapparsi a qualcosa… c’è del buono in questo mondo, per cui è giusto combattere». Se, parafrasando quanto dice Jacques Le Goff (Alla ricerca del Medioevo, Laterza, Bari 2005, p. 167), la cifra del Medioevo cristiano è la speranza, la saggezza degli Hobbit rappresenta questa speranza nel Medioevo di Tolkien. Smeagol-Gollum era anche lui un hobbit, prima di imbattersi casualmente nell’Anello; sedotto e completamente soggiogato da esso, si trasforma in una larva solitaria consumata nella mente e nel corpo, dilaniata dal conflitto tra le sue due personalità e ossessionato dal desiderio di tornare in possesso dell’Anello. Tuttavia, a differenza dei Nazgul, che hanno scelto consapevolmente di passare dalla parte di Sauron, Gollum è l’ignavo, un miserabile schiavo del suo destino, che vive d squallidi espedienti, sotterfugi e menzogne. Forse per questo, Frodo gli dimostra più volte pietà e misericordia; e il fato (o forse la Provvidenza) faranno sì che sarà proprio il suo intervento, alla fine, ad assicurare la distruzione dell’Anello. Nelle vicende della Terra di Mezzo, anche le azioni dei malvagi finiscono, contro le loro stesse intenzioni, per servire la causa del Bene. Uno dei personaggi più caratteristici di un archetipo medievale che il film ben rappresenta, è senz’altro Aragorn. All’inizio, egli nasconde la sua identità dietro quella di Ramingo Granpasso, ma in realtà il suo ruolo nella vicenda, rivelato man mano che il viaggio della Compagnia prosegue, risulterà decisivo per le sorti della Terra di Mezzo. Egli è il legittimo pretendente al trono di Gondor, nonché il predestinato a guidare alla vittoria dei popoli liberi contro l’armata dell’Oscuro Signore; non solo ha quindi il compito di ripristinare l’autorità legittima secondo una concezione tradizionale (e medievale) della gerarchia del potere, ma anche di ricomporre l’originaria armonia del cosmo infranta e minacciata dal mortifero cupio dissolvi di Sauron e delle sue orribili orde. In attesa della chiamata, Aragorn erra ramingo, ma alcuni segni dimostrano subito che la sua stirpe è reale: cura le ferite di Frodo imponendo le mani e utilizzando l’erba vathelas. è impossibile non vedere in questo episodio un accenno ai re taumaturghi studiati da Marc Bloch (I re taumaturghi, Einaudi, Torino 1989), così come il viaggio di Aragorn nelle viscere delle montagne, alla ricerca dei Morti di Dunclivo per chiedere loro di unirsi a lui nella battaglia, ci ricorda il topos della discesa dell’eroe agli inferi. Man mano che il suo valore è dimostrato sul campo, Aragorn si riappropria della sua originale valenza regale e solare, che si esprimerà nell’ultimo episodio anche nei colori dell’araldica sovrana del bianco e dell’argento delle sue vesti. La sua non è mai una regalità ostentata con arroganza: il suo potere si manifesta e si afferma per la sua superiore dignità; non è un mero privilegio di sangue, ma innanzitutto la capacità di assumersi un pesante fardello di responsabilità. Con un gioco di parole potremmo dire che Aragorn ha autorità perché è autorevole, non autoritario; ed il suo è un potere che deriva dall’autorità, non è un’autorità che deriva dal potere. Se Aragorn è il Re sacro e giusto per antonomasia, la figura dell’anti-re, la sua parodia, quello che un sovrano non dovrebbe mai essere, è incarnato da una parte dall’inetto Denethor, il Sovrintendente di Gondor in assenza del re, che si rifiuta di cedere il posto al sovrano e non fa nulla per contrastare l’assedio delle forze di Sauron, dall’altra e soprattutto dai Nazgul. Questi sono re che hanno abdicato al loro ruolo diventando schiavi del potere dell’Anello, illusi da una falsa prospettiva di immortalità, e nello stesso tempo hanno spezzato il patto che li legava al proprio popolo.
Più in generale, Il Signore degli Anelli potrebbe essere interpretata come una rappresentazione dello scontro tra le forze del Bene e quelle del Male. La contrapposizione tra le due schiere è ben visibile nel secondo e nel terzo episodio, rispettivamente durante la marcia verso al fosso di Helm e nella battaglia finale nei campi di Pelennor: l’esercito dell’oscuro signore (composto, oltre dai Nazgul, anche dagli orchi, dagli Uruk-hai, dai Trolls, dai Goblin) appare come un’informe massa, nera e orrenda: la perdita di una identità evidenziata dall’uniformità cromatica delle corazze e delle armi (e che ricorda quella dell’esercito di Mordred nelle scene finali dell’Excalibur di Boorman) propria è il frutto della sottomissione al potere totalitario e tirannico di Sauron, corrotto e pervertitore; viceversa le stirpi della Terra di Mezzo, come appare anche nella scena del concilio di Elrond, mantengono sempre la loro specificità e pluralità (gli allegri e rubicondi Hobbit, coltivatori di campi, i fatati e semi-divini elfi, nostalgici di un passato glorioso e abitatori della magica terra di Lothlorien, i corpulenti nani, abitatori delle montagne) oltre che un autogoverno (ciascun popolo, dopo un acceso dibattito, decide liberamente se aderire alla coalizione). è un’altra versione dello scontro tra le forze di Artù-Luce e quelle Mordred-Ombra ripreso da Dante (Inferno, XXXII, 61-62). La battaglia, data l’esiguità delle forze che hanno risposto all’appello del Re, sembrerebbe avere un esito scontato e disperato, provvidenzialmente però (nel senso più etimologico della parola) i buoni vincono. Accanto al livello materiale c’è sempre, e prevale, una dimensione superiore e spirituale. Ma, come ha fatto notare Franco Cardini, ne Il signore degli Anelli il colore dominante non è il bianco, né il nero, bensì il grigio (il colore delle vesti di Gandalf prima della presunta morte e del suo ritorno come Bianco): non si tratta dello scontro finale, dell’Armageddon, di una manichea contrapposizione tra Bene e Male distinguibili chiaramente. Alla Compagnia è toccato combattere il nemico nella Terza Era; ma l’impresa è solo un episodio di una guerra infinita. è lo stesso Gandalf a dirlo: Sauron è battuto definitivamente, ma il Male non è sconfitto. Tornerà in altre epoche e sotto altre forme. Si potrebbe dire, con Sant’Agostino, che le due civitates (o, se si preferisce, il grano e la zizzania) sono destinate a coabitare nel mondo fino alla fine dei tempi. Meritano una menzione anche i personaggi femminili della storia, che Jackson ha saputo ben rappresentare nelle loro caratteristiche sia estetiche che spirituali. Esse rispecchiano la concezione dell’amore in Tolkien, che è inequivocabilmente dantesco, stilnovista e da Fedeli d’Amore; e tutte danno un contributo decisivo agli uomini nella lotta contro Sauron. Dama Galadriel, nel suo bianco sfolgorante, è la donna eterea, sublimata e lontanissima dalle miserie terrene. Ricorda la Madre Terra dei culti pagani, ma anche la Vergine Maria del cristianesimo; con la sua luce abbagliante si contrappone irriducibilmente e vince l’oscurità di Mordor.
Se Aragorn è il Re, l’elfa Arwen, la Stella del Vespro, è il modello della Regina, degna compagna di colui che è destinato a guidare l’umanità liberata dal Male. Quando anche suo padre, il re degli Elfi, dispera della possibilità di sopravvivere alla furia di Sauron e le consiglia di fuggire verso Ovest, Arwen insiste per rimanere accanto al suo uomo, nonostante sappia che lui è un mortale. Ma la figura più interessante è Eowyn, più fragile e umana delle altre (ama non corrisposta Aragorn), ma non meno coraggiosa (nella battaglia finale uccide il Signore dei Nazgul). Rappresenta quelle donne comuni eppur straordinarie che hanno contribuito, rimanendo anonime, a fare la storia, anche e soprattutto nel Medioevo: è la castellana che in assenza del signore deve provvedere alla difesa dall’assedio nemico, così come Rose, la moglie di Sam, è la contadina che porta avanti la famiglia da sola, attendendo pazientemente il ritorno del marito. In definitiva, possiamo dare un giudizio positivo alla trilogia di Jackson, un regista che sicuramente ha letto e amato “Il signore degli Anelli”, e ha cercato di portarlo sul grande schermo senza violentarne troppo l’impalcatura narrativa e i contenuti di fondo (salvo necessarie e inevitabili variazioni e omissioni, comprensibili se consideriamo che stiamo parlando di un libro di mille pagine, definito giustamente “la fiaba più lunga del mondo” e “poema epico in prosa”; anche se va detto che appare imperdonabile la totale sparizione del personaggio di Tom Bombadil, assolutamente originale nel contesto della trama.). Siamo senza dubbio lontani anni luce da certe obbrobriose versioni kitsch hollywoodiane dell’epica, troppo pacchiane e ingiustificabili anche alla luce dell’ignoranza e del disinteresse per lo storicamente corretto da parte del grande pubblico dei moderni kolossal. Jackson riesce a dosare sapientemente la presentazione e la descrizione dei personaggi e delle relazioni che li legano (come avviene ne La Compagnia dell’Anello), un icastico e suggestivo affresco del lato più oscuro e angosciante dell’universo tolkieniano (Le due Torri) e in un coerente intreccio di eventi che culminano nell’epico scontro finale. Il suo è un capolavoro che pur venendo dopo una lunga serie di heroic fantasy, da Excalibur a Il Re Scorpione passando per Conan il Barbaro (film accomunati dall’ambientazione in una Medioevo barbarico e/o in una mitica Età dell’Oro antidiluviana, popolata da creature fantastiche e dominata dalla magia, dove un gruppo di eroi deve affrontare una serie di terribili prove e compiere epiche imprese compiendo un viaggio dai forti connotati simbolici), è assolutamente unico e insuperabile nel suo genere anche e soprattutto per la solidità del retroterra mitologico e letterario che ne è alla base. Possiamo inoltre evidenziare come in questo caso, al contrario di quanto accade spesso nei moderni film realizzati al computer, i personaggi creati con la tecnologia digitale non solo non impoveriscono la visione della storia, ma sono accurati e sostanzialmente fedeli all’iconografia tradizionale (Tolkien avrebbe certamente apprezzato l’Occhio onniveggente di Sauron, la disgustosa figura di Gollum, le spettacolari scene d’assedio e di battaglia, e figure come quelle degli Ent, i pastori-alberi a metà tra il mondo umano e quello vegetale, o i terribili Nazgul che volano in groppa ai draghi). Se dunque l’opera stessa di Tolkien può essere considerata come avente valore di per se stessa, ovvero come fiaba da leggere a prescindere dai significati più profondi del suo racconto, fermandosi ad un piano superficiale potremmo dire che la trasposizione cinematografica può essere vista e apprezzata anch’essa avulsa da una lettura del libro. Così come milioni di persone hanno letto e amato Il signore degli Anelli senza essere profondi conoscitori della mitologia anglosassone o senza cogliere in pieno tutti gli aspetti della weltanschaung tolkieniana, anche i film di Jackson sono ampiamente godibili di per se stessi. Ma anche in tal caso se pure si potrebbero cogliere gli aspetti più immediati ed elementari di quello che abbiamo definito “primo livello” del Medioevo fantasy di Tolkien, ovvero tutto il mondo dell’immaginario mitico a cui attinse il grande filologo inglese dopo averlo creato, di certo non possiamo comprendere solo dalla visione dei film, se non parzialmente e di sfuggita, il “secondo livello”, e cioè il significato ed il senso simbolico che ciascun personaggio e ciascun evento della storia racchiude in sé, la grandiosa visione spirituale del mondo che l’autore, quasi inconsciamente, trasfuse nell’opera che lo ha reso immortale. è quindi necessaria, ai fini di un più approfondito studio del Medioevo fantasy di Tolkien, una visione dei film accompagnata da una parallela, o propedeutica, lettura del libro, o meglio dei libri dell’autore.
Breve nota bibliografica
M. ELIADE, Il Sacro e il profano,
Boringhieri, Torino 1973.
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©2005 Francesco Mastromatteo