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testo di Angela LACALAMITA, con la collaborazione di Francesco Mastromatteo |
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Il settimo sigillo
(Det sjunde inseglet)
di Ingmar Bergman, 1956
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Un’aquila vola alta nel silenzio di una spiaggia desolata, accompagnata solo dal rimbombare dei versi dell’Apocalisse di Giovanni: «Quando l’agnello aperse il settimo sigillo / Nel cielo si fece un silenzio di circa mezzora, / e vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio / e furono loro date sette trombe». Risuonano nel vuoto della spiaggia, lambiscono il mare che frusta la riva, accarezzano le figure che riposano sugli scogli, la scacchiera che aspetta i suoi padroni: il Cavaliere e la Morte. Così Ingmar Bergman apre Il settimo sigillo. Il film narra il nostòs di Antonius Blok, cavaliere crociato che, dopo 10 anni di peregrinatio in Terra Santa, tornerà nell’isola natia ormai devastata dalla peste, al suo castello e dalla moglie, abbandonata giovanissima in luna di miele. Ma le traversie e gli incontri fatti sulla strada per il castello faranno, in realtà, da sfondo ad un’avventura ben più gravosa, ad una sfida senza vincitori: il Cavaliere incontrerà la Morte sulla spiaggia e la sfiderà ad una partita a scacchi, per strappare alla Signora del Mondo qualche istante in più: «Il mio spirito è pronto, ma il mio corpo no» e ancora «Voglio sapere fino a che punto posso resisterti e se, dando scacco alla Morte, avrò salva la vita». Non ci si lasci però ingannare dalle apparenze: nel Cavaliere il desiderio di morte è, in realtà, forte quanto quello della vita: Antonius Block guarda alla terribile figura che gli viene accanto, come ad uno scomodo e triste compagno di viaggio e non come una fiera da cui scappare. La sua richiesta non sarà data dalla paura per una realtà che sa essere inevitabile e che, anzi, avverte come naturale e interessante ultima esperienza. Egli chiederà una dilazione di tempo per scovare quella Verità che ricerca e insegue senza sosta da tanto tempo: l’esistenza di Dio! Eccola cosa ha aspettato, inutilmente di avvertire in Terra Santa, ecco di cosa disperatamente si interroga durante una confessione, ecco ciò che affannosamente cerca negli occhi agonizzanti di una ragazza condannata al rogo come strega. «Mi atterrisce che sia impossibile sapere… Ma perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi, per quale ragione si nasconde in mille e mille promesse, preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi voglio la certezza, voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e mi parli. Lo chiamo e lo invoco e se Egli non risponde io penso che non esiste». Novello Odisseo, il Cavaliere percorrerà, perciò, l’intera isola per raggiungere non tanto la sua Penelope, di cui ben poco si dirà fino all’ultima scena, quanto la soluzione di un dramma esistenziale radicato nel fondo del suo animo. Così l’Odisseo-Block inizierà il suo viaggio. Accompagnato dal fido scudiero, continuerà a giocare, a puntate, con la Morte, incrocerà il suo cammino con tanti personaggi, tutti in movimento, tutti in cerca di qualcosa: chi dalla moglie fuggita, chi dell’untore responsabile della terribile epidemia, chi di una vita migliore, dopo essere sopravvissuta alla malattia, chi solo di una fiera paesana. E il Cavaliere-Odisseo farà di queste figure il suo seguito, mettendo a loro disposizione il suo generoso coraggio, chiedendo solo la serenità di una ciotola di latte e di un piatto di fragole. E proprio come Odisseo, che accecò Poliremo per salvare sé ed i suoi amici, Antonius sfidando la Morte tenterà di allontanarne lo sguardo dai suoi compagni di avventura. E non viaggerà forse accanto ad uno scudiero-Calipso che, più che celare il suo signore al mondo, tenterà di velare e coprire la realtà per noi, con la sua dolorosa ironia nichilista? E ancora, il Cavaliere-Odisseo non incontrerà forse la maga Circe? Già… nemmeno Bergman, come Omero, riuscirà a resistere alla tentazione di tingere la sua maga di colori infernali e di considerarla portale per l’incontro con il soprannaturale! La Circe di Bergman è però messa alla berlina, accusata di aver avuto rapporti carnali con il diavolo, capro espiatorio della pestilenza dell’isola, vittima della paura collettiva e parlerà appena: vaneggia davanti al Cavaliere, che al contrario di Odisseo chiederà personalmente di essere introdotto al principe degli inferi, non questa volta per tornare a Itaca, ma per afferrare quella verità che sfugge. L’isola natia di Antonius, la sua Itaca è Dio e chi più della testimonianza del diavolo, come anche lo stesso Sartre dirà, può assicurarne l’esistenza? Ma la sua Circe non parlerà: e come lei, nessuno dei suoi compagni gli indicherà la rotta giusta! Lo scudiero-Calipso vedrà dinanzi solo il Nulla, ai nuovi compagni la Morte richiederà solo il suo tributo: «Ci svelerai i tuoi segreti? – Non ho nulla da svelare!» - «Allora non sai niente?» – «Non serve sapere”. Sarà inaspettatamente una famiglia di saltimbanchi, i meno colti, i meno prevedibili, a dare al Cavaliere una nuova rotta: saranno la Nausicaa di Bergman!
Avvicinati da Antonius sulla riva del mare, Jof, Mia e Mikael imbandiranno per il Cavaliere una mensa eucaristica profana di latte e fragole. Questo sarà l’unico attimo di serenità del film: gli artisti di strada, gli unici che godono di un amore pulito, semplice, fedele e benedetto da Dio persino con delle Sante Visioni, daranno a Block la forza di entrare nell’Ade della foresta e riprendere il ruolo di difensore dei più deboli, per cui distrarrà persino la Morte, incombente non più sul solo Cavaliere, ma su tutto il suo seguito. Saranno le ultime battute, l’incontro finale con la Signora del Mondo, il momento di vicinanza più profonda a Itaca, a Dio: «Dall’oscurità che tutti ci attornia, mi rivolgo a Te Signore Iddio, abbi misericordia che siamo inetti e sgomenti e ignari» – «Dio, tu che in qualche modo esisti, e devi certamente esistere abbi misericordia di noi». Il Settimo Sigillo è un capolavoro dell’arte cinematografica di tutti i tempi. Ci si chiede come potrebbe non essere definito tale! Bergman scolpisce i suoi ipotesti nella letteratura antica, nel modello scritturale dell’Apocalisse di Giovanni, nell’arte pittorica della Danza Macabra e continua il suo percorso metaculturale, attingendo a quella filosofia esistenzialista che caratterizzerà tutta la filmografia e produzione teatrale, non trascurando nemmeno il folklore nel suo sangue scandinavo. Tutto questo tradotto in un film con ambientazione medievale. Perché Bergman ha scelto proprio il Medioevo come luogo temporale di azione? Ci viene in aiuto una dichiarazione rilasciata dallo stesso regista, conservata in Arts (Paris) il 23 aprile 1958 e citata nella scheda del film in «Archivio Cinematografico», a cura del Centro S. Fedele: «Ho avuto l’idea di girare Il Settimo sigillo contemplando i motivi trattati negli affreschi delle chiese medievali: i menestrelli ambulanti, la peste, i flagellanti, la Morte che gioca a scacchi, i roghi delle streghe, le Crociate…». Il regista dichiara così di aver scelto, come determinante, il modello visivo-pittorico e non sarebbe errato sottolineare l’importanza assunta dal tema della “Danza Macabra” e dal Trionfo della Morte. Nel film lo scudiero Jons si intrattiene a parlare con un pittore che sta affrescando una cappella, ritraendo gli effetti della peste sulla popolazione, con tutti i sintomi, cogliendo l’angoscia dell’uomo che si rifugia negli atti di autoflagellazione, come purificazione dal male. «Che cosa dipingi?» - gli chiede – «La Danza della Morte, che prima o poi danza con tutti». Nelle ultime scene Jof, il saltimbanco, avrà la stessa visione: la Morte, impugnando una falce e una clessidra, trascinerà le vittime del suo passaggio in un’ultima esasperata giostra, fino alla dimenticanza. E ancora, la rappresentazione della morte non è solo riservata al pittore della cappella: il capocomico Skat mostra a Jof e Mia la maschera che indossa per la recita a Elsinore e declama: «Rammenta, o sciagurato, l’eterna legge: la vita non è che un dono futile e passeggero, che io posso toglierti quando voglio!». Visioni, scacchiere, affreschi e maschere altro non sono che rappresentazioni, raffigurazioni metaforiche ora della Morte, ora della vita, ora del dolore, ora della ricerca dell’uomo. l Cavaliere e lo scudiero Jons cosa sono se non la rappresentazione della dicotomia sferzante e angosciosa che squarcia l’animo dell’uomo, impegnato nell’indagine senza fine di Dio? Ecco allora che Bergman ritrae tale frattura esistenziale nella compresenza del Cavaliere e dello scudiero Jons, uno alla ricerca sfiancante della divinità, l’altro portavoce del nichilismo assoluto. I due compagni di viaggio guardano insieme al mondo, hanno insieme combattuto una guerra, affrontano insieme il percorso fino al castello e insieme vivono gli incontri e le traversie. Il mondo scorre uguale davanti ai loro occhi, diverso è il filtro del loro animo, opposta è l’interpretazione che ne danno: se il Cavaliere corre a confessarsi, lo scudiero ironizza amaramente sulla crudele inutilità della Crociata, se il Cavaliere interroga la strega su cosa vede negli ultimi attimi di vita, lo scudiero afferma che il Nulla le si profila davanti e il suo sguardo spalancato è solo lo stupore davanti al Niente, se davanti alla Morte il Cavaliere prega un Dio che si pretende esserci, lo scudiero lo rimprovera: nessuno lo ascolterà! I due qui ritratti non sono uomini dalla diversa fede! Rappresentano molto più profondamente le due costanti tensioni dell’animo umano: la tensione alla fede, il rischio di perdersi nel vuoto del mondo, la paura del Nulla. Lo scudiero è l’ombra del Cavaliere, un’ombra anche scomoda, considerando il continuo tentativo del suo padrone di zittirlo nei suoi monologhi nichilisti. Ecco, allora, la tecnica della rappresentazione: Bergman porta in scena due diverse maschere per richiamare l’unico e deframmentato animo dell’uomo novecentesco. Ecco ora la risposta alla nostra prima domanda: il Medioevo è qui impiegato dal regista come maschera del nostro tempo, delle nostre visioni, delle nostre angosce. Bergman non ha fatto altro che rivisitare simbolicamente il Medioevo, con una chiave di lettura poetica, tramite una meditazione filosofica ed esistenziale. Come vi è ricordata la Crociata? Il pellegrinaggio, il viaggio, sono portatori della precarietà e transitorietà della vita umana, portano in sé la contraddizione dell’uomo. Lo scudiero Jons dice: «Per dieci anni siamo stati laggiù lasciando che le serpi ci mordessero, le mosche ci divorassero, le fiere ci dilaniassero, gli infedeli ci accoppassero, il vino ci avvenelasse, le donne ci infettassero. Tutto per cosa? Per la gloria del Signore. Sai, secondo me questa crociata l’ha inventata qualcuno che poi è rimasto pacifico a casa». Attraverso l’ironia sferzante nei confronti della Crociata che ha disgustato Jons, traspare la delusione dell’uomo novecentesco verso ogni motivazione ideale, vi passa la negazione di ogni autorità ciecamente imposta, di una metafisica che non consola più né provvede ai bisogni dell’uomo. Attraverso la ricerca continua del Cavaliere, si delinea la ricerca esistenzialista dell’uomo, la filosofia della crisi che sommerge le convenzioni tradizionali a cui l’uomo era assuefatto. Sollevando i veli della metafora storica, si scopre la cultura del regista, la sua infanzia di figlio di pastore luterano, il suo percorso filosofico che tocca Nietzsche e Kierkegaard, attraversa Ibsen e Heidegger e si esprime chiaramente in quella tematica religiosa dai contorni irrisolvibili, in quel dissidio tra mente e cuore che rimane insoluto. Ecco che il Medioevo diventa fonte di moderna riflessione. Cos’è allora il buio della foresta del Cavaliere, se non la raffigurazione del nero dell’anima che avvolge l’uomo, nella crisi dei sensi e del cuore? Cos’è questa peste falcidia tutti? è solo la terribile epidemia che colpì tutta l’Europa nella seconda metà del XIV secolo, provocando la morte di milioni di persone e che costrinse Petrarca a rifugiarsi in luoghi più salubri e che ispirato il Decameron di Boccaccio? è solo questo? Non è anche il senso di profonda angoscia che prende l’uomo davanti all’inevitabile, nell’accettazione rabbiosa della morte che arriva inaspettata e indesiderata? E non è il grido di una vita che sente il cambiamento arrivare e che paradossalmente e in profonda contraddizione con sé lo agogna anche se si tratta della morte stessa? è mormorio di gente alla locanda: «Stanno accadendo cose orribili. Pare che giù al villaggio abbia partorito una testa di lupo» – «Molti si sono purgati con il fuoco e ne sono morti ma il prete dice che è molto meglio morire puri piuttosto che vivere preda di Satana» – «è la fine, sì lo sappiamo tutti quanti ma nessuno ha il coraggio di dirlo: è la fine del mondo!». Oltre questi scenari che ricalcano particolarmente i versi esaltati di Raul Glabre, cosa c’è sotto queste visioni apocalittiche, se non il terrore dell’ignoto e dell’indefinibile dell’uomo della seconda metà del ‘900? Che si chiami paura della distruzione atomica, che si chiami terrore post guerra mondiale, che sia il preludio del terremoto ideologico che sconvolgerà l’Europa giovane degli anni ’60 è chiaro che questo dialogo serrato, i chiaroscuri, e gli accorgimenti tecnici esprimono con chiarezza lo scompenso dell’intellettuale moderno.
Ancora… il rogo della strega? Ci sarebbe da chiedersi quanto sia storicamente corretto vedere in un film ambientato verso la seconda metà del ‘300, un rogo in piena foresta, di notte. Sappiamo che vere persecuzioni e condanne al rogo inziarono, in realtà, dopo la bolla pontificia del 1484 ed è datato al 1486 Malleus Maleficarum, teoria della repressione elaborata da due domenicani, senza dimenticare che innumerevoli furono le voci contrastanti già all’epoca. Solo distorsione prospettica? Cerchiamo prima di tutto di comprendere cosa il regista sta tentando di suggerirci con questa artisticamente superba realizzazione di condanna a morte: cos’è per noi, oggi, il rogo della strega? on è il rifiuto di qualche nuovo stimolo, forse destabilizzante, forse rischioso, forse ignorato e temuto come tale? Non vi è forse rappresentata la condanna della società verso tutto ciò che è nuovo? Il rogo è il simbolo della prepotenza del potere, della dittatura morale dell’auctoritas che tortura, fino ad illudersi di purificare cauterizzare, ogni crepa di un sistema che sta per disgregarsi. Bergman ha agito, quindi, modellando personaggi e avvenimenti in chiave avveniristica, ha seguito la corrente di questo presente che utilizza, deforma ed adotta il passato per le sue esigenze. Ma c’è stata una vera e propria moda culturale che ha visto il Medioevo protagonista di una serie di film e produzioni tv: un interesse che, possiamo ben credere, nasca proprio dalla comodità con cui è possibile “metaforizzarne” tanti aspetti: ecco, allora, che il disagio e l’incertezza di oggi nei confronti del futuro, si sono condensati in una continua, estenuante ed esasperante rivisitazione di momenti e sensazioni che, sicuramente, saranno stati già difficili per i nostri avi, ma che vengono offuscati ulteriormente dalla cinepresa. l Medioevo è stato scelto ed impiegato come sfondo di film semi-storici, da registi più interessati a vestire le vicende moderne con abiti d’epoca che preoccupati di eventuali distorsioni o anacronismi. Anzi, ogni regista ha creato un suo Medioevo, sovente anche abbastanza lontano da quello che i documenti storici ci raccontano. Troppo spesso i documenti sono stati ignorati, troppo spesso si sono trasmutate situazioni dell’epoca in archetipi da deformare e proprio la complessità dell’età moderna che nei film è stata ben mascherata da fogge medievali, dovrebbe farci riflettere sulla semplificazione stereotipica che ha subito l’idea del Medioevo. Nel corso degli ultimi decenni si è quindi fatta strada una polemica di ardua e lontana risoluzione: quanto è giusto lasciare spazio immaginifico ed inventivo all’arte, che giunge persino a deformare la storia in nome di sé? Bisogna sicuramente tener conto della differenza tra la Storia e le storie: errore quindi della critica è quello di stabilire la validità di una produzione in base a parametri che non siano totalmente estetici… per dirla in breve, sarebbe un grande sbaglio valutare la bellezza di un’opera a seconda della rispondenza o meno dalla realtà. Ma attenzione: altrettanto sbagliato e pericoloso sarebbe il non chiarire allo spettatore determinate scelte, propriamente artistiche. In realtà, ogni rappresentazione, anche contemporanea, di qualsiasi vicenda, proprio per il fatto di subire una manipolazione di rilettura e interpretazione si allontana dalla sfera della Storia, per entrare nella categoria dell’arte e della rivisitazione scenica. Impossibile quindi pretendere che una ricostruzione di un periodo lontano, le cui testimonianze sono spesso oggetto di traversia e discussione da parte egli stessi specialisti, possa esserne fedele affresco dell’epoca. Accettiamo, pertanto, l’idea che si sia ormai legittimata un’estetica dell’artificio, ma i responsabili di questa artistica libertà stiano attenti a non danneggiare il lavoro di ricerca e di divulgazione della verità dei fatti, che gli storici già conducono con difficoltà; che non siano, in breve, ulteriore ostacolo ad un progetto di revisione e correzione di credenze stereotipiche che hanno per troppo tempo influenzato l’immaginario della massa su quel periodo storico chiamato Medioevo.
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©2008 Angela Lacalamita (con la collaborazione di Francesco Mastromatteo)