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  testo di Marilena Squicciarini  


I racconti di Canterbury

di Pier Paolo Pasolini, 1972

LA SCHEDA DEL FILM

 

      

 

   

Sogg.: tratto da The Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer
Scen.: Pier Paolo Pasolini
Fot.: Tonino Delli Colli
Mus.: scelta da Pier Paolo Pasolini con la collaborazione e l'elaborazione di Ennio Morricone
Inter.:

Hugh Griffith (sir January), Laura Betti (la donna di Bath), Ninetto Davoli (Perkin il buffone), Franco Citti (il diavolo), Alan Webb (il vecchio), Josephine Chaplin (May), Pier Paolo Pasolini (Geoffrey Chaucer), J.P. Van Dyne, Vernon Dobtcheff, Adrian Street, Derek Deadman, Nicholas Smith, Dan Thomas, Michael Balfour, John Francis Lane, Judy Stewart-Murray, Elisabetta Genovese.

Nazionalità: Italia, 1972
Durata: 110'
Altri titoli: The Canterbury Tales; Les contes de Canterbury; Pasolinis tolldreiste geschichten

 

  

Tra il 1971 e il 1974 Pasolini porta sullo schermo tre capolavori della novellistica mondiale: il Decameron, I racconti di Canterbury e Le Mille e una notte.

Una “gran voglia di ridere” sollecita la Trilogia della vita, questo è il titolo complessivo dei tre film. Pasolini compie un viaggio nel passato, viaggio dominato dalla pura gioia del racconto, viaggio che è soprattutto un’evasione dal presente e dalla storia alla ricerca della “corporalità popolare”, di un corpo non ancora alienato dalla “omologazione culturale”. Il Medioevo è per Pasolini il tempo di una umanità originaria e mitica, che si esprime attraverso corpi innocenti, non ancora manipolati e distrutti dalle istituzioni e dalle convenzioni della civiltà “borghese”.

Pasolini era consapevole però anche di esercitare così, col sogno e col gioco, un’efficace e radicale opposizione al presente. Dichiarava di ricorrere al passato per contestare il presente, la sua irrealtà fatta di consumi superflui che rendono superflua la vita. E lo faceva attraverso la rappresentazione della realtà autentica del corpo e della vita in epoche remote: «Perché io sono giunto all’esasperata libertà di rappresentazione di gesti e atti sessuali? […] In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. […] Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. […] Il simbolo della realtà corporea è il corpo nudo e in modo ancora più sintetico il sesso» (P. P. Pasolini, Tetis, in Erotismo, eversione, merce, Cappelli, Bologna 1974, pp. 100-1).

I racconti di Canterbury sono il secondo episodio di questa trilogia, vincitori dell’Orso d’oro al Festival di Berlino del 1972. Si aprono calati direttamente all’interno di un “brulichio puramente esistenziale” fatto di risate, urla vivaci e canzoni sguaiate. Subito dopo i titoli la canzone popolare napoletana “Fenesta ca’ lucive” introduce l’imprescindibile tema pasoliniano della morte.

Il primo racconto è quello che vede la giovane Maggio andare in sposa all’anziano cavaliere Gennaio. I due protagonisti si oppongono chiaramente: da una parte troviamo Gennaio, che vive nel suo palazzo imponente, attorniato da armigeri caricaturali con elmi ed alabarde sproporzionate, sovraccarico di vesti lussuose, dall’altra Maggio, incontrata per la prima volta tra la folla del mercato chiassoso.

Il successivo racconto descrive un episodio di delazione ai danni di un povero omosessuale scoperto in flagrante: la morte che spetta al “lussurioso” deriva chiaramente non dalla scelta sessuale ma dal potere repressivo esercitato sul corpo e contro il corpo. Fra la folla che assiste all’esecuzione si aggira un losco demonio che incontra un avido e spietato cacciatore di streghe. I due si mettono in società, stringendo il patto di prendere ognuno la propria parte di guadagno, che per il diavolo significa prendere tutto ciò che gli uomini vorranno donargli. Ma una vecchia, non volendo essere taglieggiata dal cacciatore di streghe, lo manda al diavolo, che, come pattuito, se lo porta all’inferno.

    

La terza novella appare come un inno all’incoscienza della gioia di vivere che esplode nei gesti e nelle azioni del buffone Perkin/Ninetto e nel continuo ricorso alla citazione chapliniana: anche quando finirà alla gogna Perkin non perderà il suo buonumore.   

Nel quarto racconto il sesso è visto come via d’uscita dalle prevaricazioni del potere costituito, incarnato dal repellente legnaiolo che sposa la bella Alison.

Nella novella successiva le sovrapposizioni e le contaminazioni tra potere e sessualità diventano ancora più esplicite trovando la loro oggettivazione esemplare nella figura della donna di Bath, vorace e insaziabile, che passa nella stessa chiesa dal funerale del quarto marito al matrimonio con il quinto.

La sesta novella ha per protagonisti due studenti, che, recatisi a controllare la macinazione del grano dell’Università, si vendicano del mugnaio truffatore andando a letto con la moglie e la figlia.

Nella settima novella la Morte, cercata da tre giovani per vendicare l’amico, invece diventa il frutto diretto dell’azione corruttrice delle monete d’oro e della smania del loro possesso.

Dopo la novella della beffa di un moribondo a un frate che cerca di strappargli sul letto di morte un’ultima elemosina per il convento, il film si conclude con l’infernale visione di Satanasso che defeca frati.

Pasolini si pone programmaticamente in posizione di libertà rispetto al testo di Chaucer e rispetto all’attendibilità storica del periodo trattato. Infatti tende a fissare il racconto nello spazio astorico del mito con l’obiettivo di cogliere una naturalità anteriore all’attribuzione di senso derivato dalla cultura e dalla storia: «Ho raccontato queste storie solamente per il piacere di raccontarle. Il piacere di raccontare storie implica un giocare con ciò che si narra, e questo giocare implica una certa libertà riguardo alla materia. Questa libertà di fronte alla materia richiede che la ricostruzione di Chaucer sia di fantasia, e che non debba essere usata come pretesto per la ricostruzione di un periodo storico. La storia in questo film è strettamente di fantasia. Perciò devo dimenticare Chaucer per poter fare il film come un mio gioco di fantasia, un mio gioco personale come autore» (dalla conferenza stampa di Pasolini al Festival di Berlino del 1972, in «Jeune Cinéma», 68, febbraio 1973).

Chaucer e il ‘300 inglese rappresentano, dunque, i suoi punti di partenza: un attento fruitore riuscirà bene a distinguere il dettaglio realistico dal dato piegato da Pasolini alla sua poetica.

I ventinove pellegrini che Chaucer/Pasolini immagina di incontrare alla Tabard Inn di Southwark sono uno specchio della società inglese della fine del secolo XIV: sono infatti i rappresentanti di tutte le classi sociali, fatta eccezione per i ceti più alti (alta nobiltà) e più bassi (“servi della gleba”). Dominano dunque i ceti medi destinati a divenire i reali protagonisti della società inglese.

Sono pellegrini diretti all’Abbazia di Canterbury, che allieteranno il viaggio raccontando storie. La scelta che Pasolini effettua tra i racconti proposti da Chaucer cade quasi esclusivamente sui fabliaux. Il fabliau è un genere narrativo sviluppatosi tra il secolo XII e il secolo XIV, caratterizzato da toni licenziosi e contenuti osceni che vedono spesso coinvolti mariti, mogli e amanti. Sono dunque racconti che esprimono più liberamente la vitalità e gli istinti per giungere all’obiettivo di valorizzare il corpo. «Uomini, sentimenti e cose parlano nel film attraverso la fisicità pura delle immagini, dei gesti, degli sguardi, degli oggetti» (R. Luperini, P. Castaldi, L. Marchiani, La scrittura e l’interpretazione, Palumbo, Firenze, 1996, I, p. 981). La mimica, tipica dell’oralità popolare, sostituisce la parola: questo è un rinvio significativo alla sensibilità del tempo, fatto più di simboli che di linguaggio.

Pasolini assume il ruolo di Chaucer-pellegrino e si nasconde dietro i personaggi che appaiono gli unici produttori della storia. I racconti sono in tutto otto e attraverso di essi si può individuare in filigrana il tema della morte accostarsi a quello della giocosità del raccontare. Ecco le ragioni: «Chaucer ha ancora un piede nel Medioevo, ma non appartiene al ‘popolo’, anche se ha preso le sue storie dal popolo. Lui è già un borghese. […] Prevede tutte le vittorie e i trionfi della borghesia, ma ne prevede anche la putrefazione» (da un’intervista a Pasolini di R. Lomax e O. Stach, in «Seven Days», 17 novembre 1971).

Su tutte le novelle domina, quindi, una tensione plumbea e moraleggiante che Pasolini individua tra le specificità chauceriane rispetto alla “coscienza tranquilla” del Boccaccio. E in effetti, I racconti di Canterbury sono meno vitali e più lussuosi e cifrati rispetto al Decameron. È un Medioevo stagnante e incupito dove permane l’ostentazione del gioco sessuale ma è presente anche «la dimensione della colpa e dell’abiezione degli uomini; c’è il gusto beffardo della sfida e della trasgressione, ma c’è anche l’ombra della persecuzione e del ricatto; c’è il demone in persona (interpretato da uno straordinario Franco Citti) che si rispecchia nella malvagità degli uomini, e c’è addirittura, sia pure mediata dal sogno, la visione grottesca di Lucifero e dell’Inferno« (P. Spila, P. P. Pasolini, il sapore più autentico del cinema d’autore, Gremese, Roma 1999, p. 103).

Il controcanto della malattia, della vecchiaia e della morte è insistente: «la morte, l’aldilà è sempre presente, una morte però medievale, quindi profondamente allegorica e nello stesso momento volgare fino all’abiezione» (intervista a Pasolini in «L’Espresso», 11 luglio 1971). È infatti una morte che emerge spesso come punizione, come risultato del comportamento amorale o a causa della bassezza morale degli uomini.

 

Breve nota bibliografica

L. DE GIUSTI, I film di Pier Paolo Pasolini, Gremese, Roma 1983.
P. SPILA, Pier Paolo Pasolini: il sapore più autentico del cinema d’autore, Gremese, Roma 1999.
A. FERRERO,  Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1977.
R. CAVALLUZZI, Pasolini visionario, la poesia, il cinema, Schena, Fasano 1994.

     

  

       

   

©2008 Marilena Squicciarini

    

 


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