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testo di Francesco Calavita |
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LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO
(La passion de Jeanne d'Arc)
di Carl Theodor Dreyer, 1928
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Francia, 1431. Giovanna di Domremy, semplice contadinella lorense, ragazza di diciannove anni, è sotto giudizio di un tribunale della chiesa. Giovanna, dopo aver rifiutato l’occupazione degli inglesi nella guerra dei cent’anni, è prigioniera dei Borgognoni. Inoltre il re di Francia, Carlo VII, l’ha abbandonata al suo destino e i soldati di Warwick, governatore inglese del castello di Rouen, la trascinano davanti a un tribunale ecclesiastico. L’accusa è di eresia e allo stesso tempo di essere posseduta dal demonio, dal momento che Giovanna, oltre ad indossare abiti maschili, dichiara di aver assistito all’apparizione di S. Michele. Ma la storia ci ha consegnato Giovanna d’Arco come una condottiera impegnata contro gli inglesi, autorità che il tribunale rappresenta. Il film di Dreyer è centrato sulla figura della pulzella d’Orleans, cercando di andare oltre il mito. Le vicende di Giovanna (interpretata da Renée Falconetti), sottoposta ad interrogatori estenuanti, torture, pressioni psicologiche, sono condensate in un’unica giornata e in un unico processo. Nelle sale del palazzo di Rouen Giovanna, giudicata dal tribunale ecclesiastico, rifiuta di rispondere e di collaborare anche sotto tortura. La ragazza chiede di poter ricevere la comunione, ma le viene negata. Ormai logorata dalle torture, viene trascinata in un cimitero, dove firma l’abiura. Dopo aver subito la rasura dei capelli in segno di infamia, è condannata a morire arsa viva. Riceve la comunione, sale sul rogo e brucia davanti al popolo nella piazza del mercato di Rouen. Nella convinzione che sia stata immolata una santa si scatenano il pianto e la rivolta del popolo. Scoppia una sommossa, e tocca ai militari inglesi sopprimere la manifestazione popolare. La Giovanna di Dreyer non è un’eroina, ma una ragazza qualunque, visionaria e sola, costretta a subire la violenza del potere. Forse da questa considerazione si va sviluppando un piano ben preciso, che è lo stesso Dreyer a spiegarci: «La mia sceneggiatura condensava lo svolgimento del processo: il mio lavoro è consistito nel conservare solo l’essenziale. Gli autentici sceneggiatori del film furono Giovanna d’Arco e i suoi giudici. Tutte le parole che venivano pronunciate erano quelle della storia tutti gli interpreti pronunciavano esattamente le parole che si potevano leggere nelle didascalie. Sarebbe stato più facile fare il film con il parlato ma non ne avevamo ancora la possibilità. Anche la tecnica dei primi piani si dovette ai vecchi registri del tribunale. Molte domande brevi, molte risposte corte. Ogni risposta un riquadro. Quindi ci concentrammo sul volto, scarno e nudo, dove i sentimenti potevano essere letti, e dove l’anima di Giovanna era come in trasparenza. Le riprese lunghe non ci sarebbero state di nessuna utilità e avrebbero soltanto distratto la nostra attenzione dalla sublime recitazione della Falconetti». Nella sua intervista Dreyer parla di primi piani: infatti l’80% del film è fatto di primi piani. L’obbiettivo della cinepresa diretta dal regista danese è quello di scrutare e nello stesso tempo scavare nei volti e nelle espressioni per poter arrivare direttamente al pensiero, all’emozione e al carattere del personaggio. Nei volti incastrati dalla cinepresa da Dreyer troviamo di tutto: volti segnati, chi dal tempo, chi dalla povertà, chi dalla stupidità, chi dall’orgoglio, chi dall’ipocrisia, chi dalla pietà. Il cocktail che alla fine ne viene fuori, non può essere altro che sorseggiato gustando l’immensa dose di umanità che c’è dentro: un’umanità vissuta, vera e senza abbellimenti estetici. Per quanto riguarda i personaggi non si può non essere colpiti dall’interpretazione del grande persecutore di Giovanna, l’Eminenza: le espressioni che emanano severità e imperio sono efficacissime. In ogni momento del film dev’essere fatto un discorso a parte per Giovanna e di conseguenza anche per la Falconetti, costantemente sopra le righe: interamente sostenuto dal primo piano, il suo volto candido e quasi in estasi divina è segnato solo dalle lacrime del pianto. Il personaggio di una martire consegnato alla storia è perfettamente costruito nel momento in cui prevale in Giovanna la voglia di rimanere fedele ai suoi ideali nonostante abbia provato sentimenti intensi come il dolore e la paura.
Nella pellicola di Dreyer, va sottolineata la netta assenza di una grande messinscena all’americana, che contraddistinguerà invece la Giovanna d’Arco di Luc Besson del 1999: è una scenografia semplice e nuda, quella del palazzo di Rouen, stilizzata all’estremo: un ponte levatoio, un patibolo, una stanza delle torture; il tutto ricamato da uno stile ieratico, fondato sull’alternanza ossessiva dei primissimi piani fissi su Giovanna ed i suoi giudici. Solo con questo Dreyer è riuscito nella sua intenzione, che come lui stesso dice, era quella di mostrare che gli eroi della storia sono anch'essi degli uomini. Costretto a rifugiarsi in Francia a causa della pessima condizione in cui versava il settore cinematografico danese, Carl Theodore Dreyer, con La passione di Giovanna d’Arco, ci consegna un film che oltre a mettere in evidenza la storia di una giovane donna credente opposta al comune consenso di teologi ottusi e giuristi intransigenti, è anche un film che fa un larghissimo uso della simbologia: l’ombra della grata della cella che è una croce sul pavimento, poi calpestata ed occupata dal prelato che finge misericordia; la fossa scavata e dalla quale sbuca un teschio umano, l’annunciazione della morte che incombe su Giovanna; la mano di sua eminenza che si ritira non appena ha detto che di lei la chiesa avrà pietà. Inoltre è altissimo l’indice di pathos che tende a crescere quando aumenta il ritmo della ruota chiodata; quando il fanciullo scopre il corpo della madre uccisa tra la folla; quando il cannone spara sul popolo in rivolta, quando una goccia di sangue cade nella bacinella, conseguenza dell’incisione fatta sul braccio di Giovanna. Imparagonabile è anche la sequenza del rogo dove le inquadrature di lei, della folla, dei militari, dei prelati, del libero volo degli uccelli e del bastone che tiene il crocifisso, sono il frutto di un film sospeso tra verità storica e carica tragica. La pellicola, da un punto di vista tematico, oltre ad esaltare il nazionalismo spirituale post bellico della Francia si basa soprattutto su una critica massiccia al sistema clericale, concentrata nella frase di un prelato che sostiene un’offesa all’istituzione come giustificazione alla condanna a morte della ragazza: «Dal momento che siete certa della vostra salvezza, allora non avete bisogno della chiesa?». La risposta della pulzella d’Orleans che sceglie la morte seguendo il proprio fanatismo religioso appare come un vero e proprio inno al martirio, la liberazione nella morte.
Dreyer, con La Passion de Jeanne d’Arc, realizza quello
che, come ha scritto Marc Bloch, dovrebbe essere il compito dello
storico: saper trovare, al di la dei documenti, la vita reale degli
uomini del passato così come l’orco della fiaba sente l’odore della
carne umana.
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©2008 Francesco Calavita