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  testo di Annangela Federica Germano  


Il nome della rosa

di Jean-Jacques Annaud, 1986

LA SCHEDA DEL FILM

 

      

 

   

Sogg.: tratto da Il nome della rosa di Umberto Eco
Scen.: Andrew Birkin, Alain Godard, Gérard Brach, Howard Franklin
Fot.: Tonino Delli Colli
Mus.: James Horner
Inter.:

Sean Connery (Guglielmo da Baskerville), Christian Slater (Adso da Melk), F. Murray Abraham (Bernardo Gui), Feodor Chaliapin jr. (Jorge da Burgos), Michael Lonsdale (abate), Ron Perlman (Salvatore), Helmut Qualtinger (Remigio da Varagine), Valentina Vergas (la ragazza), William Hickey, Elya Baskin, Michael Habeck, Volker Prechtel, Urs Althaus, Leopoldo Trieste, Franco Valobra, Vernon Dobtcheff, Donald O'Brien, Andrew Birkin, Lucien Bodard, Peter Berling, Pete Lancaster.

Nazionalità:  Italia-Germania-Francia, 1986
Durata: 132'
Altri titoli: Der Name der Rose; The Name of the Rose

 

«Il passo che separa la tensione mistica dalla violenza della follia è fin troppo breve»: sono le parole con cui il francescano Guglielmo da Baskerville parla al suo novizio degli eretici dolciniani, ma possono essere considerate come filo conduttore di tutto il film, tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Eco pubblicato nel 1980.

Se infatti si deve parlare di film che tratta di Medioevo, va specificato che quello qui rappresentato è un Medioevo in cui la razionalità e il suo contrario coesistono in un continuo tira e molla. In parte lontano da stereotipi e luoghi comuni, se c’è qui il Medioevo censore, inquisitore, eretico, apocalittico e cacciatore di streghe, c’è anche il maestro francescano, fervente sostenitore della ragionevolezza, che, nella sua fierezza intellettuale, allontana dalla tendenza ad assolutizzare quegli aspetti dettati, invece, da illogiche paure.

Nel romanzo è rappresentata non solo, come nel film, la complessità dell’età medievale, ma vi è molto di più; a partire dall’intricata rete di simboli, che gli ha valso la definizione di “labirinto dei segni”, e di cui la rosa è uno fra i tanti. Se dalle prime parole di Eco si comprende che essa va intesa come ciò che sta in mente dei, Annaud ha invece ricavato il significato più spendibile: la figura femminile. Il regista, inoltre, semplifica il labirinto interpretativo di Eco scegliendo, consapevolmente, di dare maggior spazio all’intreccio giallo e alla spettacolarità di questo tipo di cinema. Certo, è di supporto la fotografia austera di Tonino Delli Colli: il buio, le zone d’ombra e il senso di oppressione dominante trasmettono non solo l’ansia ed il crescendo emotivo della vicenda, ma anche l’idea di un Medioevo davvero come età di oscurantismo.

Il severo inquisitore, Bernardo Gui, invitato dall’abate ad indagare sulla presenza del maligno nell’abbazia, non delude le aspettative di quei monaci che fin dall’inizio ne avevano voluto vedere lo zampino nelle misteriose morti, ricollegandole perfino al compimento di profezie apocalittiche; e così l’arcano si svela: i colpevoli sono (e chi, altrimenti?) due monaci ex eretici e una donna. Subito balza agli occhi la facilità, spesso degenerata in superficialità, con cui la Chiesa ha condannato a morte donne, ritenute perfide per natura negli ambienti religiosi dell’epoca, con l’accusa di stregoneria e di pratica di riti satanici: e così anche nel film la condanna al rogo segna la sorte della misera popolana, il «piccolo demonio scatenato», colpevole di essere in compagnia di un galletto e un gatto neri e perciò sospettata di avere rapporti carnali con il demonio sotto forma di uno dei due animali. Sembra che nessuno scrupolo abbia nemmeno sfiorato la mente del giudice domenicano nel sentenziare la colpevolezza della donna, così come nell’ estorcere ammissioni di colpa indotte, e perciò fasulle, ai due ex dolciniani, Salvatore e Remigio, con l’utilizzo e con la terrificante prospettiva della tortura.

   

La mancanza di obbedienza ha rappresentato, soprattutto nel Basso Medioevo, il sottile confine tra eresia e ortodossia; la Chiesa ha mostrato l’avversario esasperandone, se non inventando, gli aspetti violenti per giustificare il proprio agire persecutorio. Sorte toccata a Dolcino di Novara, condannato come eretico al rogo nel 1307: dalle parole di Guglielmo comprendiamo che Dolcino sarebbe stato promotore di un movimento religioso improntato alla ricerca della povertà sul modello di Cristo, che egli e i suoi seguaci avrebbero sostenuto la povertà a tutti i costi, e che perciò massacravano i ricchi. Ma la realtà storica è qui un po’ falsata: le tesi di Dolcino, che ci è possibile conoscere esclusivamente attraverso i resoconti del suo maggiore persecutore (lo stesso Bernardo Gui del film), si inquadrano nel desiderio generale di una rivolta morale della Chiesa, che già dal secolo XI aveva fatto sentire i suoi primi sintomi. Dolcino creò nuove regole di comportamento che non prevedessero la mediazione della Chiesa e, dopo aver aderito al movimento degli “apostolici” di Gherardo Segarelli da Parma (anch’egli arso sul rogo), si rese portavoce di una profezia millenarista che indicava come prossimo la fine del mondo e della Chiesa, ormai nella sua ultima fase (quella di bontà e povertà).

La condizione di esclusi tipica dei dolciniani (e degli eretici in genere) può spiegare perché un personaggio come Salvatore abbia aderito a questo movimento; la sua deformità fisica è una spia della sua origine contadina e della generale ignoranza in materia medica nelle campagne: qui si ricorreva a forme rudimentali di aborto con una bassa percentuale di riuscita, per cui spesso si davano alla luce bambini deformi (dal punto di vista anatomico, il corpo femminile non era ben conosciuto; caso a parte è la Scuola di medicina di Salerno, una delle prime ad approfondire le conoscenze nei campi dell’ostetricia, anatomia e chirurgia, come dimostra il trattato dell’ostetrica Trotula, sua esponente di spicco). E una persona deforme deve andar via dalla campagna e trova supporto, al di fuori di essa, in altri esclusi come lui. Così l’aspetto fisico di Salvatore si rivela un indicatore socio-culturale: è infatti specchio della non totale cristianizzazione delle campagne nel Medioevo (una maggiore opera di conversione nelle zone extra-urbane si è verificata in seguito alla Controriforma).

La ricerca della perfezione e dell’integrità morale, che sembra sia stata una spiccata tendenza del mondo religioso medievale, ha così generato mostri, proprio come il sonno della ragione. Nell’ aspirazione a preservare l’infallibilità della parola di Dio, la Chiesa ha occultato tutto quanto rischiava di metterla in dubbio; a partire dai libri, quelli dal secolo XVI definiti proibiti, soggetti nel tempo a pratiche distruttive (come la palinsestatura o la perdita di intere biblioteche), frutto di un rifiuto ideologico nei confronti di quei testi. Vi sono qui al contempo la grandiosità e la pazzia dell'intelletto umano, in grado di produrre quantità smisurate di libri contenenti i più vari campi del sapere, rendendoli però inaccessibili al popolo.

  

La biblioteca stessa de Il nome della rosa è isolata, preclusa ai più, poiché in essa la ragione si esterna nella parola scritta, privilegio di pochi. Potrebbe sorprendere come un atto censorio nasca proprio tra i banchi di uno scriptorium benedettino, centro focale della trasmissione e conservazione dei testi. Eppure la convinzione che la missione di un’abbazia benedettina sia la semplice preservazione, e non la ricerca, del sapere (poiché «nella storia della conoscenza non c’è progresso, ma una mera, costante e sublime ricapitolazione», come sostiene il venerabile Jorge), ha condotto alla definitiva scomparsa di un libro ritenuto spiritualmente pericoloso. è il secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia: essa provoca il riso, «sfogo dell’ uomo volgare», che mai sarebbe apparso sul volto di Cristo. Ed il riso è come un «vento diabolico che deforma il volto e rende gli uomini simili alle scimmie», è proprio dell’ uomo come lo è il peccato.

Se, per quanto detto, emerge del Medioevo l’aspetto cupo, ottuso e superstizioso, spesso sconfinato nell’assurdo, non è da escludere l’esistenza parallela dell’altro, niente affatto irrazionale. Così è nei confronti del monaco ex eretico, colpevole di aver travisato il messaggio evangelico e di non aver compreso il reale significato della povertà. Così è nei confronti dei libri, preziosi contenitori della conoscenza e del seducente sapere, e della commedia, che, pur suscitando il riso, può rivelarsi strumento di verità. Così è anche nei confronti della femmina, la quale, solo per essere una creatura di Dio e di far parte del mondo da Lui creato, non può essere del tutto malvagia. Nel film, la donna diventa strumento di tensione verso la razionalità e si carica anche di una forte connotazione sessuale, costituendo così il mezzo attraverso cui si scardina la concezione dogmatica sessuofobica, tipica della Chiesa del tempo.

Nella sua indagine alla Sherlock Holmes in vesti medievali, Guglielmo da Baskerville si avvale del procedimento deduttivo sostituitosi a quello induttivo, proprio del platonismo: l’uso di questo metodo è infatti una conseguenza della riscoperta di Aristotele verificatasi nel Duecento, secolo di una generale innovazione in molti campi della vita sociale. è il periodo in cui nascono le città, i laici ottengono la possibilità di acquisire una formazione intellettuale grazie al sorgere delle Universitates, e muta perciò il monopolio ecclesiastico nell’istruzione ed educazione.

 

La palinsestatura è una tecnica di “riciclo”, la quale rendeva possibile la riscrittura di un testo attraverso il riutilizzo della materia scrittoria. Nel caso del codice pergamenaceo, «si immergevano per una notte nel latte i fogli che si volevano riutilizzare, strofinandoli con una spugna, per toglierne via l’inchiostro; quindi li si ricopriva di farina, per non farli seccare, e li si spianava sotto un peso; infine li si raschiava e li si lisciava con pietra pomice, e li si riduceva, tagliandoli, al nuovo formato (naturalmente più piccolo) che si voleva realizzare.[…] L’interpretazione della scrittura di testi erasi» (scriptio inferior), «di solito ridotta a poche e deboli tracce, scarsamente visibili ad occhio nudo, e almeno in parte ricoperta da quella sovrapposta (scriptio superior), risulta difficile ma è estremamente importante, specie se il testo tramandato è raro o addirittura unico» (A. Petrucci, Breve storia della scrittura latina, Bagatto Libri, Roma 1992, pp. 31-32 ).

   

     

       

   

©2008 Annangela Federica Germano

    

 


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