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testo di Giuseppe Barile |
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Monty Python e il Sacro Graal
(Monty Python and the Holy Grail)
di Therry Gilliam, Therry Jones, 1975
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La nebbia avvolge le pianure dell’Inghilterra, un rumore di zoccoli preannuncia l’arrivo di un cavaliere in groppa al suo destriero. Il pubblico non può che rimanere stupito quando Artù compare mimando la posa della cavalcata accompagnato dal suo scudiero che batte due mezzi gusci di cocco simulandone l’incedere. Con questa scena tanto poetica quanto surreale inizia Monty Python e il Sacro Graal, il primo e forse più famoso film dei Monty Python. Ma non sono solo noci di cocco a popolare il Medioevo goliardico messo in scena dal celebre gruppo comico inglese: ragionamenti deliranti riguardo i voli di rondine, personaggi con un piede nel medioevo degli stereotipi ed uno nell’era contemporanea delle contraddizioni, cavalieri inutilmente violenti o assolutamente codardi, dame oltremodo lascive; questi sono i personaggi con cui Graham Chapman, Terry Gilliam, Eric Idle, John Cleese e Michael Palin popolano quello che nel 2000 è stato definito il quinto film più divertente di sempre, che ancora oggi è in grado di stupire lo spettatore grazie all’inimitabile stile dei Python. L’avventura di The Holy Grail nasce nel 1974 con un budget limitato a sole 150.000 £ raccolte grazie al finanziamento di gruppi musicali quali i Led Zeppelin ed i Pink Floyd che permisero, ai comici della BBC, di spingersi ben oltre lo stile politically correct del network e di partorire questo capolavoro del cinema. Fin dalle prime battute l’inconfondibile stile dei Phyton si fa strada colpendo e coinvolgendo lo spettatore con un’ironia arguta e irriverente, allontanandosi gradualmente non solo dal medioevo realistico, ma fondendo indiscriminatamente elementi appartenenti alla contemporaneità con il filo conduttore epico delle vicende arturiane.
Se Monicelli si era impegnato alcuni anni prima in un’artistica ricostruzione di ciò che è potuto essere il Medioevo italiano con L’armata Brancaleone (1966) ponendo particolare attenzione alla lingua, ai costumi e alle ambientazioni, i Python si dedicano ad una decostruzione non tanto dello stereotipo ma della storia stessa mettendo in scena un rifiuto di tutto ciò che è accademicamente attestato: analizzando le due pellicole in relazione alla loro epoca non è difficile cogliere come l’atteggiamento degli autori sia profondamente legato al segmento di storia a cui appartengono. Se le vicende di Brancaleone e sgangherati soci precedono di poco quelli che sarebbero stati i moti sociali del ’68 e quindi nascono in un periodo pervaso da un profondo senso di cambiamento, la pellicola britannica vede i natali nel periodo immediatamente precedente all’ondata di nichilismo che avrebbe seguito il fallimento delle aspettative sessantottine: diviene chiaro come lo stile dei Python si sposi appieno con l’idea che si vuole trasmettere, non a caso gli intermezzi animati, firmati da Terry Gilliam, sono più irridenti e dissacranti che puramente ironici, i personaggi appartengono più al mondo dell’assurdo che a quello del comico.
Sarà lo stesso Gilliam a stigmatizzare anni dopo in uno dei suo capolavori, Paura e delirio a Las Vegas (1998), questa condizione: «c’era una fantastica, universale sensazione che qualunque cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo e quello, credo, era il nostro appiglio. Quel senso di inevitabile vittoria sulle forze del vecchio e del male. Non in senso violento o cattivo, la nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Avevamo tutto lo slancio, cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda», dice Frank Rondo riferendosi alla metà degli anni Sessanta per poi proseguire, riferendosi al momento in cui vive, «E ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e guardare a ovest, e con il tipo giusto di occhi potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta, quel punto dove l’onda alla fine si è infranta ed è tornata indietro». The Holy Grail è proprio il prodotto di quest’onda infranta, di un rifiuto del passato e della storia stessa più che di una critica ironica e costruttiva. Non vi è infatti il desiderio di decostruire gli stereotipi, bensì di irridere la storia stessa, emblema di questo è la sequenza in cui un cavaliere decapita lo storico intento a spiegare le vicende di Artù allo spettatore, sequenza che nel metaplot del film porterà poi al colpo di scena finale assumendo una sua particolare centralità; quindi, ciò che lega The Holy Grail e il Medioevo è solo un filo ironico molto flebile, che diviene più un pretesto per scatenare l’ilarità che un cardine della pellicola. Dubbia è quindi un’eventuale utilità didattica in stretta connessione con le tematiche proprie del mondo medievale, mentre ben più si addice ad essere contestualizzata come un prodotto del suo tempo, descrivendo la visione della storia medievale e come questa possa essere stata profondamente differente da quella che si era affacciata solo pochi anni prima sul palcoscenico.
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©2008 Giuseppe Barile