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testo di Victor Rivera Magos |
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Il mestiere delle armi
di Ermanno Olmi, 2001
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Ermanno Olmi, ne Il mestiere delle armi, sceglie di accostarsi alla vita di Giovanni de Medici (1498-1526), padre del futuro Granduca di Toscana Cosimo I, attraverso il racconto della sua morte. È una scelta voluta dal regista per meditare, attraverso la figura di Giovanni, sulla guerra e sulla situazione politica italiana alla fine del Medioevo, cercando di trarne una morale attualizzante. La storia narra dell’ultima settimana di vita di Giovanni de Medici il quale, stipendiato da Clemente VII per difendere il confine dello Stato Pontificio, si getta all’inseguimento delle truppe di Georg von Frundsberg, comandante dell’esercito di Carlo V le quali, dopo aver preso Milano, tentano di passarlo, riuscendovi con l’aiuto del duca di Mantova Federico Gonzaga. Dopo alcune scaramucce evitate, finalmente lo scontro avviene nelle vicinanze di Governolo, nel mantovano, dove Giovanni viene ferito ad una gamba da un colpo di falconetto, nuova arma da fuoco leggera fornita al Frundsberg dal duca di Ferrara Alfonso d’Este. Morirà nel palazzo di Luigi Gonzaga, a Mantova, cinque giorni dopo, a causa dell’incancrenirsi della ferita. Nell’accostarsi a Giovanni, Olmi non dimentica di procedere per gradi. Il suo commento è lasciato alle voci degli stessi protagonisti: alla penna di Pietro Aretino, al Principe di Niccolò Machiavelli, alle Istorie del Guicciardini, a documenti originali (le lettere ufficiali del Pontefice, quelle delle signorie di Ferrara e Mantova, quelle con la moglie Maria Salviati, le cronache locali), oltre agli affreschi tardo rinascimentali che la fotografia del fratello Fabio Olmi concede senza eccessiva autocelebrazione, con una preziosa commistione di gusto estetico e di ricerca sulla psicologia degli elementi. Quei protagonisti si esprimono inoltre in un volgare cinquecentesco che offre, sino ai dialetti stretti dei marinai emiliani, un percorso filologico concreto nella lingua italiana (ci aveva già pensato, con fini opposti ma altrettanto “alti”, il Brancaleone di Monicelli). Lo spazio descrittivo della figura di Giovanni de Medici è poi affiancato costantemente dall’altrettanto meditata analisi delle parti in causa – manca solo Venezia, altra alleata del Pontefice – lasciando percepire una settimana densa di avvenimenti, profondamente calata nella storia ma come sospesa in un non-tempo. La contemplazione della notte e il giorno quasi inesistente, i colori pesanti degli esterni invernali padani contro la vivacità di taluni interni cortigiani, direttamente ispirati dai dipinti di Holbein il Giovane, contribuiscono a creare la cornice agli eventi. Olmi non scrive, come potrebbe sembrare, una biografia. È in realtà una meditazione sulla guerra, «via più breve alla crudele morte», e sul carattere dell’uomo. Lo fa servendosi del passato, come egli stesso dichiara, perché ritiene che il passato aiuti a ragionare più lucidamente e possa fornire una chiave di lettura etica anche per i nostri giorni. Tuttavia quella di Olmi è una lettura meccanicistica, funzionale alla morale che vuole trarre dalla vicenda di Giovanni: la guerra, con la comparsa delle armi da fuoco, non è più un fatto da romanzo cavalleresco, con un codice ben preciso che il Giovanni della pellicola sembra ancora incarnare e con dei cavalieri che ormai sembrano destinati a rincorrere la guerra più che a farla, ma un modo per regredire allo stato di belve. A supportare la sua tesi vi è la pesante critica alla divisione degli stati italiani dei secoli XV e XVI, più interessati alla difesa della propria integrità istituzionale che al servizio di una causa maggiore. In questo caso il tradimento dei d’Este e dei Gonzaga, visto in chiave cristiana, provoca la morte di Giovanni e la punizione divina con il sacco di Roma del 1527. È evidente che l’idea di Medioevo che traspare non può essere condivisa in toto. Se la lettura degli eventi, oltre che i costumi (l’armatura di Giovanni è ricostruita identica a quella originale conservata dal Museo Stibbert di Firenze) e la fotografia, sono rigorosi nella loro fedeltà al reale, metaforicamente il film appare troppo direttamente legato alla retorica umanistica della Canzone all’Italia o a quella risorgimentale che giudicava gli “staterelli italiani” rei della mancata unità nazionale. Da questo punto di vista non serve riprendere la motivazione del Machiavelli, il quale aveva visto in Giovanni uno dei possibili uomini in grado di unificare l’Italia: il concetto di nazione è un’invenzione successiva e sconosciuta, per come la intendiamo oggi, all’Italia del tempo. È insomma una lettura del Medioevo, seppure tardissimo, troppo finalistica e spostata verso gli intenti etici del regista. Anche il supporto dello stesso Machiavelli, il quale criticava la situazione del suo tempo ma con un “laicismo” più evidente, diviene facilmente strumento dell’intento moraleggiante e, nel nostro caso, astorico, proposto dalla pellicola. Olmi non tiene volutamente in conto la situazione reale dell’Italia del tempo, dove il progressivo formarsi dello stato regionale fu solo la diretta conseguenza dell’evoluzione istituzionale del Comune Settentrionale nel passaggio attraverso la Signoria. Un passaggio naturale, secondo quanto la storiografia contemporanea sostiene, nel quale le vicende italiane si incrociano ancor più che in passato con quelle europee ad un livello squisitamente politico ed etico funzionalmente a quello. È dunque, quella di Olmi, una lettura parziale, strumentale e, nei significati sottesi, molto poco storica. Ciò è visibile, ad esempio, nella motivazione che egli propone delle armature “brunite” utilizzate da Giovanni e dai suoi uomini, scurite per combattere anche di notte. In realtà il de Medici le aveva fatte annerire insieme alle sue insegne in segno di lutto alla morte di Leone X nel 1523 e tali le aveva mantenute. La pellicola è tuttavia così dichiaratamente moraleggiante che appare sin troppo semplice farne un motivo di critica negativa. Va invece apprezzato lo sforzo di mantenere il rigore filologico degli eventi, dei costumi e della fotografia, nonostante la soggettività che traspare nell’interpretazione delle sensazioni dei protagonisti e delle “maschere” che interpretano. Da questo punto di vista la figura di Giovanni appare eccessivamente umanizzata e somigliante a quella di un uomo del nostro tempo, critico nei confronti della guerra e della “ragion di stato”. Bisogna considerare invece che Giovanni era un guerriero, un condottiero mercenario, al quale la guerra era necessaria per sopravvivere al pari della “ragion di stato”.
La guerra medievale era anch’essa un fatto naturale. Solo alla fine del Medioevo cominciò ad essere interpretata diversamente, sia per la comparsa delle armi da fuoco che per la perdita del senso cavalleresco dell’incontro tra guerrieri. La guerra, dal secolo XIV, era divenuta un fatto di scaramucce, imboscate e attacchi a tradimento. In questo senso il saluto che Olmi fa fare al de Medici alla vista del Frunsberg è indicativo di due diverse concezioni della guerra, medievale l’una e moderna l’altra. Tuttavia è solo la lettura delle cose proposta da Olmi. In realtà niente ci può far giudicare Giovanni de Medici molto diverso dai guerrieri a lui contemporanei e, leggendo la sua biografia, queste supposizioni trovano conferma. Come molta parte dei giovani del tempo, la sua infanzia e adolescenza erano già state abbondantemente caratterizzate da avvenimenti particolari, non ultimo l’omicidio di un suo coetaneo, per il quale fu “sbandito” da Firenze. Giovanni de Medici come Francesco d’Assisi, dunque, o come Giovanni Acuto, capitano di ventura e successivamente Capitano da Guerra del Comune di Firenze nel secolo XIV (nonostante gli accostamenti appaiano azzardati). Di grande livello è invece l’interpretazione dello scorrere del tempo, fermo al presente delle esequie di Giovanni (mirabile il lavoro ricostruttivo della camera ardente e dei momenti immediatamente precedenti il corteo funebre) ma nel contempo assolutamente mobile in un passato frammentato, fatto di azione, di meditazione, di ricordi romanzescamente amorosi (in una dicotomia tra “amor sacro”, rappresentato dalla moglie, e “amor profano”, l’amante). Il mestiere delle armi è uno dei più bei film storici italiani degli ultimi anni, in particolare se confrontato con i tentativi mal riusciti di altri autori, come il Pupi Avati de I cavalieri che fecero l’impresa, uscito contemporaneamente alla pellicola di Olmi. Tuttavia l’utilizzo didattico della pellicola deve considerare preliminarmente gli intenti fortemente moraleggianti dell’interpretazione storica del regista.
Breve nota bibliografica e filmografica
F. ALLODOLI, Giovanni dalle Bande Nere, Le
Monnier, Firenze 1929.
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©2008 Victor Rivera Magos