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testo di Giuseppe Losapio |
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Lancillotto e Ginevra
(Lancelot du Lac)
di Robert Bresson, 1974
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I pochi cavalieri reduci dalla ricerca del Sacro Graal tornano delusi a corte con la convinzione di essere perseguitati da una maledizione divina. Nello stesso stato di sconforto si trova Lancillotto del Lago, l’amante della regina Ginevra, che decide di recidere il suo adulterio. In una corte divisa dai rancori e dalle voci sul rapporto tra i due, Lancillotto cerca di sedare le inimicizie interne e di placare le esuberanze del giovane Gauvain, suo leale amico e nipote del sovrano. Il torneo della vicina Escalon offre a Mordred l’occasione per sortire un agguato a Lancillotto e screditare la regina. Ma l’imboscata non sortisce effetto, perché Lancillotto decide all’ultimo momento di parteciparvi di nascosto indossando un’armatura chiara senza insegne. Durante la giostra il Cavaliere bianco sconfigge tutti i cavalieri, solo Artù e Gauvain lo riconoscono, ma una ferita all’addome disperde Lancillotto nella foresta. Disperata per la scomparsa del suo campione, Ginevra si rinchiude nel luogo dei suoi incontri amorosi, sorvegliata da Mordred. Ripresosi Lancillotto rapisce Ginevra e nella foga uccide il fidato Gauvain. Artù mosso dalla pietà delle ultime parole del nipote concede una possibilità a Lancillotto: riconsegnando la regina gli saranno rimosse tutte le accuse a patto di abbandonare per sempre la corte. Ginevra decide di ritornanre da Artù non prima di un giuramento di eterno e casto amore. Ma Mordred approfitta della situazione per sobillare contro il re, preparando la letale imboscata nella foresta, dove tutti i cavalieri e il sovrano troveranno la morte. L’epica di “Lancillotto e Ginevra” è tutta negativa, in questa: «emergono i lineamenti di un mondo che è ormai preda della disperazione, al quale è negato perfino il conforto della fede» (Attolini 1981, p. 31). L’ambientazione medievale è un pretesto: «Ho abolito ogni ricostruzione – dichiara il regista nell’intervista riportata da Ferrero e Lodato – storica e pittorica: sono cose che detesto. Tenterò di conferire il “vero” a questi personaggi di un’altra epoca, grazie alla realtà della nostra», anche se, per la rappresentazione del torneo, è evidente l’uso del bagaglio iconografico di autori come Paolo Uccello e Piero della Francesca. Al regista interessa di mostrare come “i sentimenti modifichino l’aria stessa che si respira”, e per farlo applica un processo di straniamento riducendo l’evento in dettaglio, affidando la tensione al particolare e creando una sineddoche che privilegia il senso uditivo a quello visivo. Lo straniamento dello spettatore ha un doppio effetto: estrinseco, sul rapporto tra il film e il pubblico, e intrinseco tra film e mito arturiano. Il pubblico abituato ad un immaginario diverso, si trova spiazzato di fronte ad un così profondo capovolgimento della mitologia bretone, per questo, non ha accolto favorevolmente il progetto bressoniano, ideato negli anni Cinquanta e realizzato dopo ventanni. Per quanto riguarda il rapporto interno sottrae il concetto del “mito” alle logiche evasive per trasformarlo in metafora. Il Medioevo e il ciclo bretone sono per Bresson dei miti e per questo hanno un enorme potere evocativo, da sfruttare per rappresentare la crisi della società contemporanea.
Tema centrale del film è il Graal, in un primo momento il titolo doveva essere proprio “Le Graal”: una reliquia conosciuta dalla cristianità già nel Tardo antico, ma canonizzata nei primi due secoli del nuovo millennio in opere distinte: dal Perceval o il Conte del Graal di Chrétien de Troyes scritto tra il 1180 e il 1181, passando per le opere di Robert de Boron e di autori anonimi, scritte all’inizio del XIII, dal Parzival di Wolfram von Eschenbach, fino alla Morte Darthur di Thomas Malory del 1485, cui Bresson fa riferimento oltre che all’opera di Chrétien de Troyes, Lancelot ou le Chevalier à la charrette. La mediazione culturale degli intellettuali cortesi e della Chiesa radica l’immagine graalica a contenuti e forme prettamente cristiane, tale da svolgere una funzione educativa e di “addestramento” del turbolento “ordine sociale” della cavalleria; è infatti di questo periodo la propaganda delle cosiddette “Leghe della pace” (Pax Dei e Tregua Dei) (Cardini, pp. 26-27). Il Graal evocato all’inizio del film è immateriale, un oggetto celeste, cercato con bramosia dai cavalieri in terra. In questo Bresson è molto “medievale”, il Sacro Calice è una rappresentazione di Dio e della Grazia, assente nel film perché irrimediabilmente perduta. Il Graal ha in Ginevra il corrispettivo terreno: più volte la regina richiama Lancillotto e Gauvain dalla violenta laicizzazione della ricerca della sacra reliquia, con frasi come «Dio ti ha dato la vita affinché tu l’amassi» oppure «Dio non è un oggetto che si trasporta», e richiama il suo amante dalla decisione di recidere il loro rapporto (Gandino, p. 151: «...l’amore viene riportato alla dimensione di fatto di natura antitetico ad una società rigidamente gerarchizzata. Espressione di tale naturalità dell’amore e del potere potenzialmente distruttivo che esso ha nei confronti del vivere sociale è, nel film, Ginevra vero polo d’attrazione intorno a cui ruotano non solo le figure di Lancillotto e Artù […] ma anche le figure di Gauvain, amico degli amanti, di Mordred, il delatore, il fellone dei contes d’adultère, e del popolo dei cavalieri»). Il Graal, una semplice coppa capace di raccogliere tutta la divinità e dai grandi poteri, è rappresentato nel quesito amoroso posto da Ginevra al suo cavaliere: «Basterà ai tuoi sogni un mondo piccolo come il mio?». Ginevra è vista da tutti i cavalieri, cercata, perché «è la nostra sola donna, il nostro sole», ma anche oggetto da osservare per tramare contro Lancillotto prima e Artù poi: come chi possiede il Graal si identifica con Cristo, allo stesso modo chi avrà Ginevra sarà re. A questo primo parallelismo Graal-Ginevra ne segue un altro tra la corte e la foresta. La prima è rappresentata da un accampamento fangoso simbolo di degrado, d’irrequietezza e d’instabilità, tipica dell’ordine cavalleresco. Gli interni del castello sono rappresentati da stanze spoglie e scrostate, dove la tavola rotonda è un simulacro inutilizzato. Lo sguardo di Bresson sulla cavalleria è impietoso. I cavalieri e il re vivono chiusi nelle loro armature, come degli automi, delle macchine da guerra, avvolti da “corazze emozionali”, rappresentazione delle proprie paure, che non permette loro di vivere l’amore, l’amicizia e il rapporto con Dio. Uno sviluppo che si ritrova anche nella storia delle armature nel Medioevo, quando l’uso sempre più raffinato degli arcieri e dei balestrieri nell’esercito spinge la cavalleria a ricoprirsi con cotte coprenti l’intero corpo.
Solo in due momenti, due personaggi abbandonano le proprie corazze: quando Lancillotto accetta l’amore di Ginevra e quando Mordred gioca a scacchi tra la sua piccola corte. E in queste scene, dove è rappresentato il sentimento d’amore e di amicizia, temi cari alla letteratura medievale, che i cavalieri smettono di essere soli. Per il resto del film la solitudine fa compiere massacri, fa uccidere amici e spersonalizza gli eroi. Per accentuare i processi di spersonalizzazione Bresson si sofferma sui dettagli e permea il film del continuo rumore delle corazze. Emerge l’immagine di una corte degradata, dove la cavalleria è definitivamente priva della Grazia. La “verità” che il regista rappresenta è tutta concentrata in questa propensione individualistica che porta all’abbandono di Dio. Accanto all’iconografia della corte con le sue rigide regole, compare la foresta abitata da esseri esclusi dal mondo come l’anziana veggente con la nipote. Personaggi legati ad un mondo magico che dialogano direttamente con i simboli tellurici, come lo scalpitio del cavallo di Lancillotto, segno della sua inesorabile morte, e il gesto della nipote che bacia la terra calpestata dal cavallo del cavaliere, ad indicare lo status sovrannaturale del guerriero. Figure di confine, come la foresta, che delimita il mondo della corte, che vela il cielo, quest’ultimo presente in sole due sequenze, sempre nuvoloso e carico di cattivi presagi. Eppure la foresta cura Lancillotto, protegge in primo momento la relazione tra i due, ma è anche la tomba dei cavalieri periti durante la ricerca del Graal e la sommossa di Mordred. Foresta che è solitamente luogo di oscurità e di ombre, luogo diabolico. Proprio nella foresta si consuma la carneficina dei cavalieri, per mezzo di arcieri nascosti tra gli alberi, quasi degli esseri diabolici che si mimetizzano con i rami.
Il valore metaforico che lega il film il tutte le sue parti e scene offre diversi spunti diattici per delle unità di apprendimento sull’amore adolescenziale e il contrasto con le regole sociali ed economiche, oppure sull’osservazione di quali siano oggi gli elementi che compongano le corazze emozionali della società contemporanea. A tal scopo è sempre utile preparare la visione del film con letture sul mondo cavalleresco classico e affidare agli studenti una scheda di lettura da svolgere al termine della proiezione. In questo modo è utile rilevare lo scarto tra l’immagine classica e quella definita dal regista. Attraverso questo percorso di lettura lo studente non solo si allena a definire la grammatica cinematografica, ma ripercorre a ritroso il processo di straniamento identificandone le tappe principali e le strutture portanti. Il Medioevo di Bresson è un pretesto “su cui riflettere atteggiamenti spirituali vicini alla sensibilità contemporanea” dove la materia cavalleresca è totalmente ribaltata fino ad esserne estranea (Attolini 1993, p. 153). È un Medioevo che rientra in quella casistica di film che fa ricorso alla storia per esprimere idee sul presente. Bresson sceglie il Medioevo arturiano perché, come ha evidenziato Massimo Oldoni, è un mondo che si è espresso per metafore come mai nessuna epoca precedente alla nostra. In più l’iconografia medievale è contemporaneamente allusiva ed evocativa. Il mondo di Lancillotto e Ginevra è senza tempo, perché è un mito. «L’immaginario contemporaneo cerca incessantemente simboli antichi e nuovi, il Medioevo è un’età dove ogni simbolo ha molteplici livelli di significato» (Oldoni, p. 191). È un’epoca dove vince l’oralità sulla parola scritta e quindi dove anche il suono è un simbolo, da qui la sineddoche utilizzata da Bresson.
Breve nota bibliografica
V. ATTOLINI, Excalibur: una
spada medievale?, in «Quaderni medievali», n. 12 (dicembre
1981).
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©2008 Giuseppe Losapio