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testo di Giuseppe Losapio |
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King Arthur
di Antoine Fuqua, 2004
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Tutti si sarebbero aspettati un remake cinematografico del ciclo dei racconti arturiani del XII secolo, scritti tra l’Inghilterra e l’Aquitania dai poeti di corte dei re inglesi e della contessa di Champagne. Il pubblico e la critica erano pronti a sospirare per i palpiti d’amore tra Lancillotto e Ginevra, oppure osservare con apprensione le fatiche spirituali dei prodi cavalieri di Artù mentre ricercano la pietra, o coppa, del Sacro Graal. Assuefatti dal simbolismo romantico del bellissimo Excalibur di John Boorman (1981) e terrorizzati dal polpettone de Il primo cavaliere di Jerry Zucker (1995), con Sean Connery e Richard Gere, film tributari del romanzo ottocentesco di Tomas Malory La morte di re Artù, eravamo pronti con un armamentario di idee preconcette per il solito giocattolone americano. Invece ci siamo ricreduti. E il giudizio sul film appare favorevole non solo per la qualità della pellicola e della regia, ma per l’idea che muove tutta la sceneggiatura, non più incentrata sulla leggenda arturiana, ma su una sua presunta storia attestata da recenti scavi archeologici in Cornovaglia e da una epigrafe latina del V secolo. Per meglio gestire i vasti territori dell’impero, Roma stanziò molti eserciti nelle zone più delicate. Le legioni erano formate dalle popolazioni di nuova conquista, costrette ad un lungo periodo di leva obbligatoria, che poteva durare oltre un decennio, per acquisire lo status di “cittadini” e muoversi liberamente nei territori romani. I fatti si svolgono nel V secolo d.C. nella Britannia settentrionale dove è stanziata una legione composta da cavalieri sàrmati e parti, con il compito di pattugliare il vallo di Adriano e respingere gli attacchi delle popolazioni indigene celtiche e dei Pitti, nel film definiti Woads, guidati dall’anziano druido e capo tribù Merlino (Stephen Dillane). Alla testa di questi cavalieri c’è un ufficiale dell’impero, nato da un matrimonio misto tra un aristocratico romano e una donna della Britannia, ed educato secondo i principi della cultura romano-cristiana: Lucius Artorius Castus (Clive Owen). Gli altri cavalieri, o meglio coloro che sono sopravvissuti al lungo periodo, circa quindici anni, di coscrizione militare sono i famosi Tristano (Mads Mikkelsen), Lancillotto (Ioan Gruffudd), Galahad (Hugh Dancy), Galvano (Joel Edgerton), Bors (Ray Winstone) e Dagonet (Ray Stevenson).
Artorius si trova a dover gestire le ultime settimane di servizio militare delle sue truppe, stanche di servire Roma, una città che non conoscono in una terra che non è la loro. Ma la venuta del vescovo Germanius (Ivano Marescotti), ufficiale dell’impero con competenze amministrative e religiose, prolunga la leva di Artorius e dei suoi soldati per un’ultima missione: scortare attraverso il vallo una famiglia di aristocratici romani che risiede fuori il limes e difenderla dagli attacchi degli angli e dei sassoni che da più parti stavano penetrando nelle isole britanniche. La notizia lancia lo sconforto tra i cavalieri, già riottosi verso Roma e tenuti insieme solo dallo spirito cameratesco che il loro generale ha saputo instaurare nel gruppo, simbolo di questo legame è la “tavola rotonda” al cui cospetto tutti i cavalieri sono uguali. I sette cavalieri raggiungono la villa romana dove trovano uno spettacolo desolante: lo sfruttamento della manodopera servile e l’uso di torture per la conversione religiosa delle popolazioni pagane. Artorius di fronte a un’applicazione del cristianesimo differente da quella insegnatali a Roma, decide di liberare i pagani murati vivi dai monaci e di scortare coattivamente la famiglia romana e la loro servitù nell’accampamento oltre il vallo. Qui incontra Ginevra (Keira Knightley), figlia di un capotribù. Dopo averla liberata e curata, Artorius la riconsegna alla sua gente al patto di attraversare indenni i boschi dalle imboscate e dagli attacchi dei Woads, eppure durante il tragitto i cavalieri romani dovranno scontrarsi con un’orda di sassoni guidati da Cynric (Til Schweiger) figlio di Cedric (Stellan Skarsgard) capo della popolazione germanica, in una battaglia suggestiva su un lago ghiacciato dove muore Dagonet. Artorius è dilaniato da una lotta interiore tra principi religiosi e di governo: le sue truppe libere dal servizio verso Roma gli chiedono di abbandonare il vallo rotto dall’avanzata sassone, dall’altra parte le richieste di Merlino e Ginevra che riconoscono in lui una discendenza indigena e indubbie capacità di governo, e chiedono di guidare le popolazioni britanniche nella difesa contro gli invasori. Sarà Ginevra a far cambiare idea all’ufficiale romano seducendolo e unendosi a lui: in questo modo Artorius si “convince” del proprio destino e organizza la difesa contro i sassoni. I suoi cavalieri in un primo momento abbandonano il loro generale, ma il legame militare li spinge a ritornare e ad unirsi nello scontro finale che vedrà la morte di Lancillotto, mentre difende Ginevra che guida il suo popolo in battaglia, e di Tristano. Il finale è scontato: Artorius sposa Ginevra e diventerà re Artù, primo sovrano dei britanni, da cui nasce il mito.
La sceneggiatura si pone una serie di quesiti interessanti che svincolano i personaggi del ciclo dai cliché del mito. Se Artù era vissuto negli ultimi anni dell’Impero Romano d’Occidente come poteva guidare delle truppe senza andare in contrasto con le istituzioni romane? Era un barbaro federato oppure un ufficiale romano? E chi erano i cavalieri della tavola rotonda, se all’epoca l’esercito era formato maggiormente dalla fanteria? Erano truppe di barbari? E chi erano i barbari che prediligevano il combattimento a cavallo? Chi era Merlino? Perché è rappresentato come un mago? Poteva essere uno sciamano o druido locale, e quindi ascoltato da entrambe le parti in causa? Quesiti che setacciano l’immensa mole di racconti su Artù, i suoi cavalieri e la sua consorte e che fanno emergere una trama, forse esile, ma sufficiente ad elaborare un racconto storico differente dal mito e aderente ad una probabile realtà. Ed ecco che appaiono i diversi cristianesimi: modi differenti di vedere la nuova religione, dalle pratiche più pie del generale Artorius a quelle più pragmatiche del vescovo Germanius. La convivenza tra religioni differenti: il Dio unico dei romani e la fede dei “padri” dei cavalieri sàrmati, o quella verso i boschi dei britanni. Gli atteggiamenti licenziosi dei soldati verso le donne: Bors detto il “casto” era padre di una decina di figli avuti da tre donne, di cui una aveva simpatie verso Lancillotto, e forse anche un figlio. Il concetto di proprietà che per i romani aveva valenze sacre che perdurano anche con il cristianesimo: Dio parlava per bocca del proprietario terriero e i servi-fedeli dovevano seguire i suoi comandamenti. La distinzione tra potere amministrativo, rappresentato dal vescovo, e quello militare gestito da Artù tipico del sistema amministrativo romano. Certo le “invenzioni” storiche e le distorsioni prospettiche sono presenti, come un centralismo politico del papa che nel V secolo non esisteva. Se il vescovo di Roma avrà contatti con i vescovi britannici avverrà nel VII secolo con le epistole di papa Gregorio Magno ad Agostino vescovo di Canterbury. Nel V secolo il cristianesimo britannico era di marca irlandese: furono infatti i monaci celtici a cristianizzare e a dare i primi vescovi alla Britannia. Oppure la locandiera che richiama i soldati romani ai loro compiti cantando una dolce nenia in inglese: detta anche lingua anglo-sassone, ovvero nata dopo l’invasione degli angli e dei sassoni, una svista di pessimo gusto.
È un
film che non ha molte pretese e per la mancanza di volti noti è
stato snobbato dalla critica più titolata, ma bene interpreta un
contesto storico in cui è inserito il racconto cinematografico.
Merito va a David Franzoni che già con Il
gladiatore ha
dimostrato come lo spettacolo e l’azione possono benissimo
rispettare la realtà storica senza che questa venga immolata
sull’altare dell’ignoranza
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©2008 Giuseppe Losapio