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testo di Silvana Filannino |
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Excalibur
di John Boorman, 1981
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«The dark ages. The land was divided and without a king. Out of those lost centuries rose a legend…of the sorcerer, Merlin, of the coming of a king, of the sword of power, Excalibur» («L’età buia. Il Paese era diviso e senza un re. Alla fine di questi secoli perduti sorse una leggenda…La leggenda di un mago, Merlino, dell’arrivo di un Re, della spada del potere, Excalibur»: è il testo di apertura del film). Excalibur è la spada che accompagna gran parte della vita di re Artù, capo della resistenza romano-bretone all’invasione dei Sassoni: intorno alla sua figura, idealizzata come quella d’un eroe nazionale, si cristallizzò un ciclo di tradizioni favolose che gli attribuiscono l’istituzione della Tavola Rotonda e attribuiscono ai suoi adepti mirabili imprese cavalleresche. Prima testimonianza della leggenda arturiana è l’Historia regum Britanniae (1135) di Goffredo di Monmouth, che rappresentò la fonte di ispirazione per il Roman de Brut (1155) del cronista anglo-normanno Robert Wace e per il ciclo di cinque romanzi cavallereschi Erec et Enide, Cligès, Lancelot, Yvain, Perceval (1155-1190) del poeta francese Chrètien de Troyes (1155-1190). Tra le opere letterarie più tarde ispirate al personaggio, notevole è il poema inglese Le Mort Darthur o Le morte d’Arthur di Thomas Malory, frutto della fusione di romanzi arturiani francesi e inglesi e pubblicato postumo nel 1485. Esattamente da quest’ultimo il regista anglo-americano John Boorman ha tratto la sceneggiatura del film che prende il nome dalla spada del potere, Excalibur appunto, «forgiata quando il mondo era giovane e uccelli e bestie e fiori erano tutt’uno con l’uomo e la morte non era che un sogno», secondo quanto dice Merlino deus ex machina del “dramma” in una delle scene iniziali.
L’atmosfera magica e puramente di fantasia è preannunciata dunque sin dall’inizio: tutta la storia, che parte dal concepimento illegittimo di Artù, prosegue con l’apoteosi e la decadenza del regno di Britannia e culmina con la ricerca disperata del Santo Graal come risposta al male incarnato nell’incestuoso figlio di Morgana, ruota intorno a questo elemento immutabile e divino al cui cospetto si alternano i fragili destini degli umani. Il soggetto quindi non è affatto nuovo, ma nuovo è il modo di rappresentarlo. Il cinema americano a partire dagli anni Trenta ha ampiamente fatto ricorso ai temi della letteratura cavalleresca attuando quel processo di idealizzazione che è anche alla base della nascita della stessa letteratura cortese (“l’abbellimento della realtà colle forme dell’ideale”, per riprendere un concetto di J. Huizinga, Autunno del Medioevo, Sansoni, Firenze 1966, p. 47), e ha dato vita a un Medioevo “da minuetto” animato da eroismo irreale e da puro amor cortese che non supera mai i limiti del platonico, quale è quello rappresentato ne I cavalieri della Tavola Rotonda (1953) di Richard Thorpe. Con Boorman abbiamo invece un rovesciamento di prospettiva che già segue il solco di altri celebri film come Lancillotto e Ginevra (1974) di Robert Bresson e Perceval (1978) di Eric Rohmer: crudo realismo che non risparmia scene cruente e di violenza e non nasconde il cupo pessimismo dell’uomo dinanzi alla rovina e alla catastrofe. Ovviamente ciò non vuol dire che Boorman si avvicini particolarmente al realismo storico (soprattutto considerando che ci si trova nel campo della leggenda e volutamente il regista ha messo in scena macroscopici anacronismi) ma indubbiamente riesce rendere, nella finzione cinematografica che si basa sugli stilemi della finzione letteraria, un volto tanto cupo quanto realistico del Medioevo e a demolire quella nobilitazione che da troppo tempo imperversava nella letteratura e nel cinema: «nel filone che riunisce suggestioni del ciclo bretone e letteratura fantastica si pensi a Excalibur, potente rappresentazione di violenza, etica cavalleresca, suggestioni religiose e magia» (F. Violante, L’età dimezzata. Il Medioevo come stereotipo tra ricerca e didattica, in Il Mezzogiorno medievale nella didattica della storia, Adda, Bari 2006, p. 24).
La musica stessa tende ad astrarsi da ogni pretesa di ricostruzione d’epoca: vengono impiegati brani di musica classica come le immortali melodie di Wagner e O fortuna dei Carmina Burana di Carl Orff, abbinati agli influssi celtici del contemporaneo Trevor Jones al suo debutto. O ancora, palesemente anacronistiche sono le armature complete dei cavalieri in tipico stile rinascimentale o le vesti delle sensuali figure femminili che ricordano quelle delle provocatorie e affascinanti donne seminude di Gustav Klimt, tutti elementi che stridono con la fedeltà alle fonti iconografiche medievali degli interni del palazzo. È inoltre evidente la distruzione della dimensione temporale, caratterizzata dalla dilatazione e compressione dei singoli avvenimenti non secondo la logica narrativa della leggenda classica ma secondo l’importanza che a essi ha attribuito Boorman, sicché tutto pare essere avvolto in un’atmosfera onirica dai contorni sfumati (non a caso Merlino si definisce nella battaglia finale che oppone Artù al figlio Mordred «un sogno per alcuni e un incubo per altri») e scandita dal mutevole dominio di ognuno dei quattro elementi dell’ universo.
Di fortissimo impatto sono i paesaggi avvolti dalla nebbia o ravvivati da fiamme incandescenti che fanno da sfondo a scene violente di battaglie o di tragiche morti (come quella del duca di Cornovaglia che avviene contemporaneamente allo sfogo lussurioso di Uther Pendragon), mentre quieta e rassicurante è la luminosità dei paesaggi lacustri che ricorrono in momenti importanti del film: la ricostituzione della spada ad opera della Dama del Lago dopo che a causa della vanità di Artù si era «infranto ciò che non poteva essere infranto»; la purificazione di Parsifal nel torrente prima della scoperta del segreto del Graal; il ritorno di Excalibur nella profondità delle acque nella scena finale del film. è poi forte contrasto tra le scene radiose della prosperità del regno, in cui domina incontrastata una vegetazione lussureggiante, e le scene degli anni della decadenza, della disperazione degli uomini e dell’oblio di tutto il creato, in cui ovunque dominano i colori cupi e scuri di una terra infeconda e priva di vita, quasi come quella descritta dal cronista Rodolfo il Glabro in cui «gli uomini “pallidi e patiti” dovevano affrontare quotidianamente la lotta per la sopravvivenza […] e tante sventure e atrocità sembravano quasi il segno della vendetta divina contro la superbia dell’uomo» (V. Attolini, Cinema di fantascienza e Medioevo, in «Quaderni Medievali», 21, giugno 1986, p. 145).
Si tratta dunque di una originale rivisitazione del mito e di un eroico tentativo di riassumere tutto il ciclo bretone in 140 minuti di pellicola dal passo incalzante che inizia a coinvolgere e a interessare in itinere, dopo un incipit ridondante e spesso grottesco, specialmente nelle scene di passione che sfociano nel ridicolo. E ridicolo è il gusto eccessivamente kitsch dei costumi di personaggi come Merlino che risentono molto degli aspetti formali della saga fantascientifica di George Lucas, Star Wars (1977-1980). A parte queste pecche Excalibur rappresenta comunque una pietra miliare del cinema caratterizzata da noti interpreti e da una colonna sonora intensa ed evocativa. è un classico fantasy degli anni Ottanta, dall’atmosfera mistica, che non ha alcuna pretesa di verità storica e per questo a maggior ragione più apprezzabile di altre.
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©2008