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testo di Gaetano Pellecchia |
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Il cuore del tiranno
Boccaccio in Ungheria
(A zsarnok szíve, avagy Boccaccio Magyarországon)
di Miklós Jancsó, 1981
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A parere di chi scrive, l'obiettivo di Jancsó è voler mostrare la labilità dei confini tra finzione e realtà, in un confronto a distanza con l'Amleto di Shakespeare e fino a coinvolgere lo stesso mezzo cinematografico. Vediamo come. In primo luogo, pare particolarmente significativa l'ambientazione del film, stimabile intorno al secondo quarto del XVI secolo, in pieno Rinascimento. Lo confermano alcuni indizi: Gaspar e il capocomico hanno letto assieme Il Principe di Machiavelli, "opuscolo" scritto nel 1513; su un fondale appare una riproduzione della "Primavera" di Sandro Botticelli, realizzata nel 1482; il capocomico afferma che in Italia le questioni si risolvono col veleno, piuttosto che col pugnale, chiaro riferimento a Lucrezia Borgia; appare infine costante la minaccia turca rivolta all'Ungheria, non sarà quindi fuori luogo ricordare la battaglia di Mohacs (1526) in cui i Turchi sconfissero l'esercito di Luigi II Jagellone e si impossessarono di gran parte del Regno d'Ungheria. Siamo, dunque, appena oltre il limite cronologico (1492) convenzionalmente attribuito alla fine del Medioevo. Questa ambientazione storica del film è funzionale al citato obiettivo di Jancsó: la riflessione sui confini tra realtà e finzione. In maniera sintetica, si può affermare che persistenze di periodi passati e processi di lungo periodo si incontrano con le "novità", le "rotture", di una nuova epoca. Ed è la dinamica interazione fra tali aspetti a connotare un certo arco cronologico o, se si preferisce, a marcare una nuova età. Rinascimento e, prima ancora, Umanesimo, sono categorie storiografiche generalmente adoperate per connotare una fase della storia europea caratterizzate da determinati fenomeni ed in cui, per gli uomini di allora, più sentita era l'esigenza di differenziarsi rispetto al passato, ma in cui tale passato era, ci si conceda il gioco di parole, molto presente. Le vicende della corte ungherese appaiono al principe Gaspar inverosimili e incomprensibili; sensazioni accentuate, se possibile, dal fatto che egli vive in un contesto in cui è più avvertita la compresenza fra elementi di novità e persistenze del passato.
In proposito, può essere utile soffermarsi sul fatto che la compagnia di attori intenda rappresentare una novella del Decameron di Giovanni Boccaccio. In primo luogo perché tale opera, oltre ad essere anche una fonte eccezionale per quel che attiene la cultura e la vita quotidiana del Basso Medioevo, ebbe vasta diffusione in Europa. In secondo luogo perché Giovanni Boccaccio nella fase tarda della sua vita si dedicò alla studio degli antichi, secondo l'esempio di Francesco Petrarca. Entrambi furono percepiti dagli umanisti come loro precursori, come i primi che cercassero di "rompere" con la propria età per incamminarsi verso una nuova, basata sullo studio delle humanae litterae. Boccaccio, dunque, fu un autore che ebbe vasta fama in Europa sia come "preumanista" che come autore del popolare e coltoDecameron. Infine, va ricordato che era tipico delle compagnie cinquecentesche rappresentare, insieme a testi a carattere sacro, testi cosiddetti "profani" e popolari. Fortemente indicativo del "gioco" tra finzione e realtà è, in secondo luogo, quanto accade alla messa in scena della novella: sempre annunciata e mai rappresentata. Anzi, verrebbe da chiedersi se realmente la rappresentazione riguardi la novella V,4 del Decameron. Infatti, anche se essa viene sempre presentata come la storia di Catilyn (Caterina) - e l'unico personaggio del Decameron che porta questo nome e che è protagonista di una novella è, appunto, la Caterina della novella V,4 - il principe Gaspar stesso annuncerà, ad un certo punto, la storia di Caterina che «amava due uomini allo stesso modo». Sbaglieremo, ma di questa Caterina, nel Decameron, non c'è traccia. Possiamo solo intendere la battuta di Gaspar all'interno di un contesto in cui nulla è dato per certo e per vero. Non solo, la mancata rappresentazione della novella sembra smentire il sottotitolo del film: Boccaccio in Ungheria. Eppure, Boccaccio in Ungheria c'era già, lo dimostrano sia il fatto che l'autore toscano è ben conosciuto a corte sia il fatto che uno dei tanti "stop" alla messa in scena della novella è motivato dalla licenziosità di essa, quindi letta e conosciuta: la vicenda filmata gioca ambiguamente con la canonicità degli aspetti formali, in questo caso il titolo, che ha notoriamente funzione di riassumere il testo.
Estremamente ingannevole è, poi, la corte ungherese così come si presenta agli occhi di Gaspar (e dello spettatore): quanto vi accade non è come sembra. I personaggi che la popolano sono tutti intenti a fornire al giovane principe versioni interessate circa la morte del re e le relazioni fra quanti vivono a corte. Fino alle sequenze finali, in cui tutti si dichiarano attori al soldo dei turchi, che ambiscono a controllare l'intero Regno d'Ungheria, ed in cui, però, tutti muoiono per il ruolo che, vero o falso, interpretano. Naturalmente, si può intravedere in questo anche una metafora di come gli uomini, per il potere, siano disposti a mentire, a non essere se stessi, ad impersonare volti diversi e ad uccidere. Non appare casuale, da questo punto di vista, la citazione del Principe di Machiavelli fatta nelle sequenze iniziali. Ed è finzione anche la "lascivia" delle numerose, belle e sensuali donne che vivono a corte: sembrano concedersi a chiunque, ma non lo fanno. Funzionale alla riflessione sui rapporti tra finzione e realtà è anche il parallelo con l'Amleto di Shakespeare. Non è questa la sede opportuna per soffermarsi sulla figura del personaggio shakespeariano, qui basterà solo evidenziare quattro elementi di quel dramma richiamati dal film: un principe erede al trono con il padre ucciso; il fratello assassino del re defunto che, dopo l'omicidio, ne sposa la vedova; la presenza a corte di una compagnia di attori; il bagno di sangue finale. Vediamo come Jancsó rielabora questi temi. A differenza di Amleto, il principe Gaspar non finge, anzi, insieme al capocomico (un grande Ninetto Davoli), è l'unico che cerca di mantenere un atteggiamento razionale. Gli attori (qui, come nell'Amleto, amici del principe), non rappresenteranno mai il loro spettacolo, cosa che invece accade nell'Amleto. Nel dramma di Shakespeare, Guido uccide il fratello per sposarne la moglie e prendersi il trono; qui tale possibilità è solo accennata: il re è stato ucciso (o fatto uccidere? E sarà poi vero?) da un orso e il fratello salito al trono cerca di sposarne la vedova. Per quanto riguarda la carneficina finale, poi, Jancsó la fa passare sotto il segno della finzione, tanto che nello spettatore si affaccia l'idea che le morti siano apparenti.
È però nell'uso di tecniche teatrali che il film mostra il suo aspetto più interessante. La ricerca di nuove possibilità di narrazione cinematografica passa, in questo film, attraverso il recupero e la rielaborazione della parola, della mimica, della pantomima, dei personaggi che entrano ed escono dal campo visivo. Tutto questo, supportato da un uso intelligente del carrello (soprattutto laterale), permette un'estrema fluidità e "leggerezza" nei cambi di scena e di situazione e apporta un contributo originale alla tecnica del piano-sequenza. Eppure un limite, in questo caleidoscopico gioco delle parti, in cui sono coinvolti lo spettatore e la stessa macchina da presa, è riscontrabile nell'eccessiva insistenza e nella costante sottolineatura che quello che vede lo spettatore e ciò che appare ai personaggi potrebbe non essere. Anzi, gli stessi personaggi potrebbero non essere. Si è già insistito su questo aspetto. Basterà solo aggiungere, in proposito, il continuo guardare degli attori nella macchina da presa.
Questo
gioco fra realtà e finzione trova il suo apice nella sequenza finale
in cui, dopo la morte (?) dei principali personaggi, la compagnia di
attori si sente libera e fugge verso l'orizzonte. Durante la corsa,
però, qualcuno li uccide uno ad uno a fucilate. E quando appare
colui che potrebbe essere stato a sparare, anch'esso viene fatto
fuori. La mano resta ignota e la macchina da presa carrella
leggermente in avanti in modo da chiudere il film con
un'inquadratura sui corpi senza vita degli attori. Un "gioco",
insomma, che, complice la sceneggiatura, rischia di essere
estremamente cerebrale, con il rischio di apportare confusione alla
storia raccontata, di indulgere all'autocompiacimento e di mettere
paradossalmente la sordina proprio al tema del limite tra finzione e
realtà e a quello, non meno importante, del rapporto fra uomo e
potere.
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©2008 Gaetano Pellecchia