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testo di Anna Maria Colonna |
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La corona di ferro
di Alessandro Blasetti, 1941
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«Volle, un giorno, l’Imperatore bizantino, inviare in dono al Sommo Pontefice la Sacra Corona di ferro…». Così Alessandro Blasetti, la figura più significativa del cinema italiano degli Anni Trenta (per il valore « nazionale » delle sue pellicole) introduce il film La corona di ferro, kolossal fantastico che mette insieme mitologia ed aspirazioni hollywoodiane; una mano apre un libro la cui prima pagina, bianca e consumata, è testimone silenziosa dell’antichità del volume. Le anonime dita cominciano a sfogliare lo scritto, curiose di assaporare una storia che ancora non conoscono, quella de La leggenda della corona di ferro... ed è proprio quello medievale il periodo più ricco di leggende e superstizioni, alimentate soprattutto dalla fantasia dei posteri. Ciò che si percepisce e si respira sin dall’inizio del film di Blasetti, ambientato in un confuso Medioevo ed ascrivibile al genere fantastorico, è l’atmosfera magica che circonda i personaggi ed il clima fiabesco che avvolge le vicende narrate; sembra quasi di ascoltare l’incipit di alcune delle favole più amate dai bambini di tutti i tempi, quali Cenerentola (dove, però, la vittima è una fanciulla ed il personaggio cattivo la matrigna), Hans e Gretel, La bella addormentata nel bosco (sono presenti, anche qui, un principe, una principessa, un castello, dei nemici da abbattere e degli amici pronti ad aiutare coloro che sono dalla parte del bene).
Rievocazione di un mondo mitico, fra storia e leggenda, La corona di ferro si articola su una serie di episodi di grande forza drammatica e su personaggi semplici, ma simbolici; servendosi dei tratti caratteristici della fiaba, Blasetti realizza un fantasy cupo e fortemente allusivo (egli stesso avrebbe confermato la presenza, nel film, dei «germi dell’antifascismo»). Il regista, combinando la sua tecnica raffinata e la solenne recitazione dei protagonisti ad un mondo enigmatico e fantasioso, conferisce all’insieme un irresistibile fascino. Proiettato alla IX Mostra del Cinema di Venezia, il film fu subito apprezzato da critica e pubblico grazie alla capacità del regista di conciliarne i gusti; le grandiose scenografie dell’universo fantastico del film, interamente ricostruito a Cinecittà, furono messe in mostra al Museo di Roma in Trastevere da giugno a settembre 2002, in occasione del centenario della nascita del regista. «Lassù, a mille metri d’altezza, su una poltrona Frau saldamente avvitata alla piattaforma della gru, gambali in cuoio, foulard di seta, un elmo in testa e tre megafoni, quattro microfoni e una ventina di fischietti al collo, c’era lui, Alessandro Blasetti, il Regista…»: così lo ricorda Federico Fellini quando, giunto a Cinecittà per intervistare Osvaldo Valenti, vide, per la prima volta, Blasetti, uomo che, con grande passione, ha dedicato tutta la sua vita al cinema. «C’era una volta, in un paese lontano lontano…», non sappiamo in quale angolo della terra sia collocato il paese di Kindaor, probabilmente esso non è mai esistito ed è frutto di pura immaginazione (come avviene un po’ in tutte le fiabe che si rispettino). La mano, instancabile ed avida di conoscere gli avvenimenti del racconto, continua a voltare ad una ad una le pagine, miniate con figure riproducenti imperatori e cavalieri, e decorate con la rappresentazione di antichi castelli. Da sempre l’uomo ha affiancato alla scrittura l’illustrazione, ma è nel corso del Medioevo che l’arte di miniare le preziose pagine di pergamena va sempre più affinandosi; se proviamo a guardare con attenzione le scene del film in cui compaiono le pagine miniate, tutte le decorazioni ci faranno, sicuramente, pensare ad un libro di epoca medievale.
«Lungo e avventuroso fu il viaggio verso Roma, finché venne a passare vicino ad una terra dove si combatteva una gran battaglia tra due Regni da secoli nemici…», ed è proprio l’immagine di una battaglia (che dimostra la tendenza del regista al grandioso ed alle scene di massa), seguita dall’assassinio di re Licinio (Massimo Girotti) da parte di suo fratello Sedemondo (Gino Cervi), desideroso di usurparne il trono, a dare avvio alla messa in scena del racconto del libro. «La fame ed il terrore ricacciarono sulle montagne il popolo vinto. E qui, la sua regina detta alla luce una bimba, Tundra…», che il destino affiancherà ad Arminio (Maurizio Romitelli), figlio del buon Licinio. Il popolo vinto, munito di fiaccole, si riunisce all’interno di una oscura e fitta foresta (ambientazione tipicamente medievale), mentre «Sedemondo si avvicina a Kindaor per prendere possesso del trono usurpato col fratricidio», appropriandosi e cercando di distruggere la Sacra Corona, «la più potente e venerata reliquia della vera Fede… ovunque passa, la giustizia trionfa»: non potrebbe, forse, la leggenda della corona di ferro, essere paragonata, sia per gli straordinari poteri del prezioso oggetto, sia per il fatto di essere, esso, una reliquia religiosa, alla leggenda medievale del Santo Graal? Infatti la tradizione vuole che, all’interno della corona ferrea, utilizzata dall'Alto Medioevo fino al XIX secolo per l'incoronazione dei re d'Italia, vi sia una lamina circolare di metallo, forgiata con il ferro di uno dei chiodi che servirono alla crocifissione di Gesù. Come si può ben notare, cambiano gli oggetti, ma il loro significato sacro e misterioso rimane identico. «Credendo, allora, di scongiurarne il soprannaturale potere, andò per gettarla con le sue stesse mani fuori dai confini del regno, alle Gole di Matersa… ma, ad ogni passo, pareva che la Corona pesasse di più». Mentre Sedemondo si libera della temuta Corona, su tre oggetti diversi appare raffigurato uno scorpione, quasi a preannunciare l’inganno di cui sarà vittima il fratricida: il suo mantello ed i suoi guanti sono, in parte, ricoperti dal disegno di uno scorpione nero; la stessa pietra sotto la quale la Corona cade, per poi dileguarsi, come per magia, divorata dalla terra, possiede, scolpita in soprarilievo, la figura di un grande scorpione: Jacques Le Goff, spiegando il simbolismo medievale, scrive che lo scorpione che punge con la sua coda rappresenta l'incarnazione della falsità, della lusinga pericolosa dell’argomentare diabolico. «Intanto, alla Reggia, la moglie di Sedemondo, nello smarrimento di avergli dato una femmina invece di un erede al trono, aveva chiesto consiglio alla nutrice, che le aveva suggerito di sostituire, nella culla, la bimba con il maschio nato al fratello ucciso…».
Sedemondo viene ingannato da un destino avverso alla sua crudeltà, quello stesso destino che, dopo vent’anni, riprese il suo corso e che utilizza chi sta intorno al malvagio re come pedina di un gioco di cui egli traccia le mosse, senza, però, conoscerne i significati. Ed è l’enigmatica vecchia (Rina Morelli) che vive nel bosco a pronunciare, per la prima volta, la parola sorte: la donna profetizza avvenimenti futuri per mezzo di storie apparentemente immaginarie; le sue mani lavorano, ininterrottamente, il filo dei destini dei personaggi, che si incrociano per poi allontanarsi di nuovo. «Il bambino venne portato alla Valle dei Leoni… e, per salvare sua figlia da colui che avrebbe amato fino a morirne, ordinò che fosse chiusa in un triplice ordine di inviolabili cancelli…». La fanciulla rinchiusa in un labirintico castello, in attesa di un cavaliere che venga a salvarla, è lo stereotipo di numerose leggende e racconti medievali. Ed è in questo modo che si conclude la storia della Corona di Ferro: Arminio partecipa al torneo organizzato da Sedemondo, vincendo, conquistando e liberando, così, Elsa (Elisa Cegani, figlia del malvagio re (anche se Arminio, dopo il sacrificio di Elsa, sposerà Tundra, interpretata da Luisa Ferida, regnando insieme a lei su Kindaor). Ancora Medioevo nel film di Blasetti: sarà un torneo a decidere a chi andrà in sposa Elsa, un torneo stabilirà a quale uomo dovrà appartenere la bellezza, ma non il cuore, della triste principessa? No, dal momento che è il destino a decretare il vincitore.
Breve nota bibliografica e webbografica
G. P. Brunetta,
Dizionario dei registi del cinema mondiale, I (A – F),
Einaudi, Torino 2005.
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©2008 Anna Maria Colonna