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Commedie boccaccesche, decamerotici e altre historie: I precursori

(1965-1968)

di Riccardo F. Esposito

  

LA FILMOGRAFIA SUL MEDIOEVO EROTICO-BOCCACCESCO

 

  

 

Si ritiene comunemente che il cosiddetto genere decamerotico derivi dalla Trilogia della Vita di Pier Paolo Pasolini, ed anzi ne rappresenti una degenere filiazione. In realtà, le cose non stanno proprio così e nei limiti di questo mio modesto articolo mi auguro, oltre a toccare altri aspetti del fenomeno, di riuscire a meglio evidenziarne le variegate fonti. Ma andiamo con ordine…

Già dagli anni ’50 si era notata nel film in costume (in particolare di produzione francese) una tendenza libertina, ovvero l’inserimento di un cauto e rarefatto erotismo (si pensi solo alla Martine Carol di pellicole quali Lucrezia Borgia o Caroline Chérie) per tacere del grande successo ottenuto nel 1952 da un farsesco film d’avventure d’ambientazione settecentesca, Fanfan la Tulipe di Christian-Jaque, con uno strepitoso Gérard Philipe. D’altra parte, nel 1964 Bernard Borderie (1924-1978) aveva dato il via alla serie Angélique (1964-67), liberamente tratta dai popolari romanzi di Anne Golon [1] ed interpretata da un’incantevole Michèle Mercier, dove l’elemento erotico, sebbene indubbiamente soltanto “suggerito” o appena intravisto, permeava comunque tutte le cinque pellicole che componevano la celebre serie. Considerando che all’epoca il boom del film storico in costume, hollywoodiano o europeo, era ormai agli sgoccioli e che le sue rievocazioni di Medioevo e Rinascimento si erano fatte sempre più manieristiche e sdolcinate, si pensò bene di tentare di rivitalizzare il filone puntando sugli aspetti più “privati”, sexy [2], e di dare maggior risalto alla figura femminile [3].

     

Fu Pasquale Festa Campanile (1927-1986) a inaugurare il nuovo genere, dirigendo la prima sexy-commedia “in costume” del cinema italiano, Una vergine per il principe, prodotta da Mario Cecchi Gori e distribuita nell’ottobre 1965. Ambientato nel 1583, il film costituiva una rilettura boccaccesca di un fatto vero, ossia l’anomala vicenda matrimoniale di Vincenzo I Gonzaga (interpretato sullo schermo da Vittorio Gassman). Le prime nozze del futuro Duca di Mantova si erano infatti concluse con un annullamento per un non meglio precisato difetto “corporale” della giovane moglie, Margherita Farnese, pronipote di Carlo V, che rendeva impossibile il coito. Nonostante la certezza di quel difetto, che costrinse Margherita ad entrare in convento, era rimasto il sospetto di un’impotenza di Vincenzo, e le seconde nozze con Eleonora Medici furono osteggiate dal padre di lei che esigeva la prova della potenza sessuale. Tale prova consisteva nel deflorare una giovane di fronte a testimoni e ciò avvenne con una certa Giulia (Virna Lisi, nel film di Festa Campanile), definita dalle cronache “bellissima e onestissima”, prelevata dall’Ospizio fiorentino delle Orfane della Pietà, la quale Giulia, successivamente, gravida e con tremila scudi di dote, venne sposata ad un “musico romano” [4]. All’epoca la vicenda impegnò alquanto seriamente, e per oltre un anno (1583-84), le corti e la Chiesa, giacché i matrimoni non erano indifferenti all’equilibrio politico dell’Italia e dell’Europa.

Nonostante una certa cura nella realizzazione, piacevoli attori di contorno (Vittorio Caprioli, Tino Buazzelli, Mario Scaccia, Paola Borboni) e una buona sceneggiatura, Una vergine per il principe non può certo definirsi un’opera riuscita. Persino i suoi protagonisti ne conservavano un ricordo tutt’altro che piacevole. Secondo  Gassman, anche se «fece molti soldi […], era bruttino e meccanico. Il copione non era stupido perché Festa Campanile è sempre stato un eccellente sceneggiatore, ma insomma il film era monco», mentre Philippe Leroy ha sempre affermato che si tratta di un lavoro che preferirebbe proprio dimenticare. Fra i pochi interpreti a mantenerne un buon ricordo c’è Virna Lisi, che in effetti, sebbene sia un po’ “fuori parte”, è l’unico elemento che torna alla mente dopo aver visionato la pellicola…

Il secondo film (fu girato ad Urbino e dintorni, in una decina di settimane nella primavera del 1965, e poi distribuito nel novembre dello stesso anno) che possiamo senz’altro ascrivere al particolarissimo intergenere da noi individuato, è La mandragola di Alberto Lattuada. Come ricorda il produttore Alfredo Bini, «nel ’65, Pasolini e io proponemmo alla RAI di fare una collana di teatro con sessanta titoli, tutto il teatro mediterraneo da Eschilo e Sofocle, fino a Verga e Pirandello, D’Annunzio compreso. Naturalmente, la RAI rifiutò e io andai avanti da solo; dei sessanta titoli riuscii a realizzarne due, La mandragola con Lattuada e Edipo Re con Pasolini» [5]. Ispirato per l’appunto all’omonima commedia in 5 atti (1518) di Niccolò Machiavelli, il film narra dell’intrigo seduttivo messo in atto dall’astuto Callimaco (Philippe Leroy), il quale, per ottenere le grazie della bella Lucrezia (Rosanna Schiaffino, moglie di Alfredo Bini all’epoca del film), si fa passare con l’aiuto del mezzano Ligurio (Jean-Claude Brialy) per un famoso dottore e convince messer Nicia Calpucci (Romolo Valli) marito di Lucrezia, che avrà un figlio se berrà una pozione a base di mandragola, ma che andrà incontro a morte certa se poi giacerà con lei: occorre dunque trovare un poveraccio (che sarà ovviamente lo stesso Callimaco, travestito) che si presti alla bisogna.

A prescindere dalle varie infedeltà al testo di Machiavelli (non necessariamente negative, come il rendere il vecchio Nicia ambiguamente consapevole – cosa del tutto assente dalla commedia originale – di quello che gli accade intorno) o addirittura alcune inverosimiglianze storiche (è famigerata quella relativa la cicatrice della vaccinazione antivaiolosa che si scorge sul braccio della Schiaffino in alcune sequenze), il film di Lattuada può considerarsi comunque ragionevolmente riuscito, divertente ma nel contempo elegante, soffuso di un piacevole e raffinato erotismo.

Le Castella (Crotone): il castello filmato nel film L'Armata Brancaleone

Nell’aprile del 1966 debuttò nei cinema italiani una pellicola fondamentale per il filone qui esaminato, L'armata Brancaleone, di Mario Monicelli, prodotto da Mario Cecchi Gori, straordinario successo di pubblico (fu il 3° maggior incasso assoluto della stagione 1966-67!) nonché vincitore di tre Nastri d’Argento (Piero Gherardi per i costumi, Carlo Di Palma per la fotografia, Carlo Rustichelli per la musica). Forse però, non tutti sanno che il film era stato concepito già nei primi anni ‘60, come uno dei progetti – vagamente ispirato a Donne e soldati (1955) di Luigi Malerba e Antonio Marchi – di una cooperativa cinematografica che ebbe vita breve, la Film Cinque (composta da Age, Scarpelli, Alfredo Bini, Mario Monicelli e Luigi Comencini). Il fiasco commerciale di un'altra pellicola prodotta dalla stessa cooperativa, A cavallo della tigre (1961), diretto da Comencini, cancellò di fatto questo ed altri progetti, sino a che, nel 1965, l’idea fu recuperata da Mario Cecchi Gori. 

Prendendo spunto non soltanto dal citato Donne e soldati, ma anche da Cervantes (Don Chisciotte), Calvino (Il cavaliere inesistente), Boccaccio, Firenzuola, Aretino, Folengo (Baldus), Ruzante, e persino Kurosawa, Monicelli realizzò una strepitosa “variazione sul tema” della cosiddetta commedia all’italiana, che solo incidentalmente era ambientata nel Medioevo [6]. Una delle cose migliori della sceneggiatura era quella sorta di latino maccheronico che costituiva l'idioma dei personaggi e che derivava dalla cultura liceale e universitaria degli autori (Age, Scarpelli e Monicelli). Espressioni quali “che te ne cala”, “cavalcone”, “fila longobarda”, “fontanile”, per quanto oggi possa sembrare incredibile, divennero all’epoca popolarissime (come ai giorni nostri certi “tormentoni” dei comici televisivi stile Zelig) tanto da venir usate in strada, dai giovani [7]. Lo stesso personaggio di Brancaleone, come ricordava Gassman, fu quello che gli diede «più popolarità, soprattutto fra il pubblico giovane e infantile, che conta, come è noto, moltissimo…». A proposito della genesi di Brancaleone, non è mai stata abbastanza sottolineata la sua origine parzialmente kurosawiana (per chi scrive, evidentissima). Ci riesce difficile, infatti, considerare incidentale, casuale, l’invero notevole somiglianza di Brancaleone con il personaggio di Kikuchiyo (Toshirō Mifune), il contadino che, ne I sette samurai (1954) di Akira Kurosawa, si fa passare per un nobile samurai (pur non essendo, si badi bene, totalmente incapace o vigliacco, dato che spesso si butta in cruente battaglie con coraggio, o se preferite, con una sorta di sanguigna e narcisistica incoscienza…).

Va infine ricordato che il grande successo del film di Monicelli (e del suo sequel del 1970, Brancaleone alle Crociate) indusse, nel corso degli anni, altri produttori a mettere in cantiere pellicole che, in maniera più e meno palese, ad essi si rifacevano. Alcuni esempi: I due crociati (1968), Don Chisciotte e Sancio Panza (1968), Tre nel Mille (1971), Il prode Anselmo e il suo scudiero (1972), Meo Patacca (1972), Mamma… li turchi! (1973), Il soldato di ventura (1976), Attila flagello di Dio (1982), Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984).

Poco più che un divertissement fra amici si rivelò invece Le piacevoli notti, di Armando Crispino e Luciano Lucignani, prodotto dal solito Cecchi Gori e girato a San Gimignano, Pienza e Montepulciano, rifacendosi all’omonima raccolta (1550) di 74 novelle compilata dal bergamasco Gian Francesco Straparola. Distribuito nel settembre 1966, il filmetto - invero abbastanza divertente - vanta uno stuolo di attori in genere ben difficile da mettere insieme in un’unica pellicola: Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Gina Lollobrigida, Adolfo Celi, Eros Pagni, Luigi Vannucchi, Gigi Proietti, Omero Antonutti, Paolo Bonacelli, Hélène Chanel e una splendida Maria Grazia Buccella (doppiata da Franca Lumachi, moglie del regista Crispino). L’episodio più riuscito dei tre è quello conclusivo, con Gassman nel ruolo di Bastiano di San Gallo, artista cinquecentesco ma anche bontempone famoso per i suoi scherzi elaborati e spesso crudeli. Evidentemente però, il suo personaggio sembra rimasto più impresso a noi spettatori che all’attore d’origine genovese, se è vero che in una sua recente intervista aveva dichiarato, in relazione al film di Crispino e Lucignani: «Non ricordo nemmeno cosa facevo…Veramente, l’ho dimenticato!».

    

Difficile invece, per Gassman, dimenticare la pellicola successiva, L'arcidiavolo di Ettore Scola  – liberamente ispirata alla novella satirica Belfagor o Del demonio che prese moglie di Niccolò Machiavelli – sia perché (parole sue) «fece una barca di soldi» [8], sia per il proficuo affiatamento che si andava creando tra l’attore e il regista Scola (L’arcidiavolo fu il terzo film che i due girarono insieme). La vicenda è collocata nel 1478, anno in cui papa Innocenzo VIII e Lorenzo de' Medici raggiungono un accordo per la pace: il figlio del papa sposerà la figlia di Lorenzo, unendo le due famiglie. Ma Belzebù invia sulla Terra l'arcidiavolo Belfagor (Gassman) accompagnato dal servitore Adramelek (Mickey Rooney, doppiato da Elio Pandolfi), per provocare un nuovo stato di guerra.

Uscita nel dicembre 1966, questa nuova produzione di Mario Cecchi Gori è indubbiamente ben fotografata, ben girata: come ha scritto Morando Morandini, «divertente, fracassona e vitale». Però, a tratti la storia gira un po’ a vuoto e purtroppo né Gassman né l’avvenenza di Claudine Auger, fresca reduce da Agente 007 Thunderball – Operazione Tuono (1965), riescono a evitare alcuni momenti di noia.

L’anno successivo Pasquale Festa Campanile tornò al genere che aveva contribuito a inaugurare con Una vergine per il principe, dirigendo La cintura di castità, distribuito nell’ottobre 1967. Il film narrava le peripezie di un cavaliere fresco di nomina (Tony Curtis), che deve partire per le Crociate senza aver consumato il matrimonio. La moglie (Monica Vitti), offesa, lo insegue per riavere la chiave della cintura di castità… La pellicola è abbastanza divertente, anche se nasce il sospetto che Festa Campanile volesse copiare in qualche modo il coevo La bisbetica domata (1967) di Franco Zeffirelli, contrapponendo ai battibecchi di Richard Burton e Elizabeth Taylor quelli di Tony Curtis e Monica Vitti. Ma la coppia Vitti-Curtis purtroppo funzionò peggio di quella Taylor-Burton, sia perché Curtis si sentiva visibilmente fuori posto in un film del genere, sia perché la Vitti, pur brava e spiritosa, non possedeva l’aggressiva avvenenza che ci si aspetterebbe dall’interprete femminile di quel tipo di pellicole (cfr. Rosanna Schiaffino, Virna Lisi, Maria Grazia Buccella, Claudine Auger, Beba Loncar…).

Nel 1968 il genere era ormai maturo per dare origine a delle parodie ed infatti la coppia comica Franco Franchi e Ciccio Ingrassia ne interpretò subito una, I due crociati di Giuseppe Orlandini, chiaramente ispirato ad alcune sequenze de L’armata Brancaleone di Monicelli; ma la stessa coppia comica si impegnò anche in un sottovalutato Don Chisciotte e Sancio Panza, diretto da Gianni Grimaldi (i due film uscirono quasi insieme, nell’agosto del 1968). Il secondo in particolare, è di ottima qualità, ben curato…una buona e “legittima” versione del romanzo di Cervantes, insomma. I due comici sono, forse imprevedibilmente, due convincenti Don Chisciotte (Ingrassia) e Sancio (Franchi), ed è un vero peccato che, lodevoli eccezioni a parte, la critica non abbia apprezzato. Così se ne lamentava l’autore alcuni anni dopo: «Ho fatto molti film con Franchi e Ingrassia, perché così voleva il mercato […]. Però, con i due comici, ho anche girato un Don Chisciotte pieno di cura e di attenzione… la critica l’ha snobbato, come se a me fosse proibito cimentarmi con temi impegnativi, difficili…» [9].

    

(1) Ho riportato il nome della sola Anne Golon, perché fu lei la vera e sola autrice dei 13 volumi del ciclo dedicato ad Angelica. Il marito Serge, in realtà, la aiutò soltanto nelle ricerche storiche. Furono gli editori dell’epoca che imposero l’aggiunta del nome del marito in copertina in quanto erano convinti che un’autrice, donna, non avrebbe garantito sufficienti vendite! Informazioni più approfondite in merito, sul sito http://digilander.libero.it/songlian/.

(2) Approccio reso possibile anche dal progressivo allentamento della censura nel cinema italiano, che si osservò nel periodo 1958-64, nonché dal boom appena concluso del primo filone sexy-erotico del nostro cinema, il famigerato (e odiatissimo dalla critica…) documentario-sexy (1960-64), vale a dire gli epigoni degeneri di Europa di notte (1959) di Alessandro Blasetti.

(3) Non a caso proprio in quello stesso periodo (1965-66) nacquero le primissime sexy-eroine del “fumetto per adulti” italiano, e una di queste fu Isabella, duchessa dei diavoli (1966-70) disegnata da Sandro Angiolini (1920-1985) su testi di Giorgio Cavedon, ed ispirata ai romanzi e ai film sull’Angelica di Anne Golon. Da ricordare anche un altro albo a fumetti-sexy, Lucrezia, che si basava liberamente sugli amori e la vita di Lucrezia Borgia (1480-1509).

(4) Notizie desunte dai Documenti inediti dal R. Archivio di Mantova a cura di G. Conti, Firenze 1893.

(5) Alberto Anile, I film di Totò (1946-1967): la maschera tradita, Le Mani, Recco/Genova 1998, pp. 356-357.

(6) L’armata Brancaleone fu girato nella Tuscia (Viterbese) e in Calabria. Per fare qualche esempio, la sequenza iniziale dell’assalto dei barbari venne realizzata in una zona di Nepi (VT), oggi purtroppo irriconoscibile perchè asfaltata e edificata; il duello nel campo di grano fra Brancaleone e Teofilatto (Gian Maria Volontè) fu filmato in un altopiano situato nei pressi del monte Soratte (che infatti si intravede sullo sfondo). Si riconoscono inoltre la Fonte Lontano di Piansano (VT), ovverossia il famoso “fontanile” nominato nel film; la cava di Terra Rossa di Valentano (VT), dove i nostri antieroi si disperano dopo essere fuggiti dal borgo colpito dalla peste; il ponte dell’Abbadia presso Vulci; e la nota Via degli Archi di Tuscanica. Quanto al mitico (ma del tutto inesistente) Aurocastro nelle Puglie, trattasi in realtà del borgo di pescatori detto Le Castella (Isola Capo Rizzuto, Crotone), in Calabria.

(7) Un altro fenomeno di costume legato alle due pellicole di Monicelli fu il fumetto Brancaleone, disegnato da Paolo Ongaro su testi di Pier Carpi: prima serie di 6 nn., editi dall’Editoriale Comics (1968-69) e una seconda di 8 nn. pubblicata dall’Editrice Astoria (1970-71).

(8) Tanto incassò e tanto fu popolare all’epoca, che diede origine anch’esso a un fumetto, Belfagor l’arcidiavolo, disegnato da Leo (Leone) Cimpellin e pubblicato dalle edizioni Erregi nel periodo 1967-69.

(9) Luigi Cozzi (a cura di), Gianni Grimaldi, in «Cinema», n° 7 (vol. 3), Ed. Inteuropa, luglio 1971, p. 82. 

  

       

       

   

©2008 Riccardo F. Esposito

    

 


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