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testo di Silvana Filannino |
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Brancaleone alle Crociate
di Mario Monicelli, 1970
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«Longo è lo cammino ma grande è la meta»… A pochi anni dal primo episodio Mario Monicelli riprende il cammino accidentato e imprevedibile del Cavalier di Norcia esattamente da dove lo ha lasciato, ricorrendo ancora una volta all’eccezionale sceneggiatura di Age e Scarpelli e a un cast d’eccezione ricco di attori teatrali che fanno degnamente da contrappeso alla recitazione inarrivabile di Gassman. A fare da trait d’union fra le due pellicole è la figura di Zenone il Santone che mantiene l’aspetto nazareno tipico dell’iconografia del Cristo ma assume sfumature misticheggianti ancora più esasperate accompagnate da un insolito accento anglosassone, facendo rimpiangere solo per poco Enrico Maria Salerno e subito apprezzare il cantante Shapiro nella veste di attore comico. La vecchia armata però ha vita breve e ben presto Brancaleone si ritrova involontariamente sopravvissuto a una strage di cristiani fatta da cristiani. Nel primo dei vari episodi in cui è diviso il film c’è già un primo accenno allo scontro “fratricida” fra sostenitori di papa Gregorio e sostenitori di papa Clemente. Sebbene nel film non siano mai menzionati i numeri di successione papale è evidente il riferimento a Gregorio VII, il papa cluniacense della Riforma Gregoriana e di quei Dictatus Papae che scatenarono l’ira del pluriscomunicato imperatore Enrico IV, che gli oppose l’antipapa Clemente III. E come nel film la presunta contesa è ammantata da questioni teologiche riguardanti la Trinità così la storica lotta che il papa intraprende contro l’imperatore si rivela più una spartizione fra le sfere di competenze relative ai vescovi-conti che un’autentica palingenesi morale.
La strage degli scismatici, come vengono definiti in un cartello posto beffardamente fra la testa mozzata di Zenone e le gambe dello stesso piantate in terra al rovescio, - «et così muoiono tutti li scismatici che capovolgono la verità» - risparmia naturalmente il nostro campione desideroso di morire eroicamente piuttosto che vivere vilmente ed è a questo punto che avviene l’invocazione della Morte che inaspettatamente gli si rivela. Rispettando perfettamente la volontà di rappresentare un Medioevo popolare e di parodiare Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman (1956) in cui il protagonista gioca a scacchi con la “Nera Mietitrice”, Monicelli mette in campo uno scheletro vestito di un saio nero che impugna una falce da fieno, come di consueto nell’iconografia occidentale e stereotipo della mentalità popolare. È metacinematografico anche quando mette alla berlina gli asceti stiliti attraverso la figura del santo Colombino, al quale i due papi in pellegrinaggio affidano il compito di stabilire chi sia il vero papa, presenta infatti la stessa carica derisoria e di sana vitalità del mediometraggio Intolleranza: Simon del deserto (titolo originale: Simòn del desierto, 1964) in cui Luis Buñuel pone su una colonna un delirante personaggio alle prese con pellegrini in cerca di miracoli e allucinazioni causate dal digiuno che esprimono tutta la vena surrealista del regista spagnolo. La superba demistificazione di un medioevo frainteso dal Romanticismo e ancor più frainteso dal cinema americano, che si limita a mettere in scena un medioevo conosciuto esclusivamente attraverso la letteratura inglese, continua anche in questo sequel con la parodia di «alcuni stereotipi: l’epoca oscura dell’Inquisizione e della caccia alle streghe, dei cavalieri e dei contadini oppressi, dei re, dei vescovi e dei papi continuamente in lotta fra loro, […] delle città anguste» (H. Fuhrman, Guida al Medioevo, Roma-Bari 1989, cit. in V. Attolini, Immagini del Medioevo nel Cinema , Bari 1993, p. 6).
Si osserva così una cerimonia pubblica che mostra la prassi dell’Inquisizione alla maniera di Bernardo Gui, in cui lo spietato accusatore ecclesiastico è dedito a sciorinare le accuse tipiche dei processi per stregoneria, la difesa dell’imputato è inesistente e le testimonianze estorte con la tortura. Ebbene non si può non sottolineare che la caccia alle streghe non ha inizio nel Medioevo (in cui anzi abbiamo rari casi di repressione severa e una certa tolleranza nei confronti delle pratiche magiche, eredità dei riti campestri greco-romani e celti) bensì nel secolo XV e raggiunge il cupo apogeo nella pubblicazione dell’opera più misogina che sia stata mai scritta, il Malleus Malleficarum, in cui si accusano le streghe di rapporti sessuali col diavolo, voli notturni, celebrazione di riti orgiastici durante il sabba, atti di adorazione di satana, contraccezione e aborto. Ben riuscita è la frase che Brancaleone rivolge a un suo compagno che attacca la donna salvata dal rogo: «Rozzo, anche tu credi a queste fandonie da popoluccio? L’ignoranza è la madre di ogni intolleranza. Passato è l’anno mille, homini moderni siamo!». Al di là di ogni derisione scanzonata si raggiungono anche pagine altamente liriche e commoventi. Nell’episodio della Ballata dell’intolleranza l’albero degli impiccati, simbolo di un mondo privo di libertà e tolleranza, potrebbe vagamente ricordare echi danteschi in riferimento a peccati come l’ingordigia e la lussuria di amanti adulteri oppure allusioni di ben altro tenore quando si parla di “colpe” come l’essere ebrei e la difesa del diritto della scienza a ricercare la verità senza ingerenze da parte delle autorità. Ciononostante le vittime offerte in sacrificio per purgare il paese dal peccato lanciano un segnale di speranza per il futuro: «Viandanti, siate lieti: il mondo non sarà per sempre intollerante, verrà il tempo in cui non vi saranno né schiavi né padroni, né guerre né ingiustizie e malattie ma ovunque pace e lavoro e tutti liberi e uguali».
Commedia a parte, chiara e lampante è la radice letteraria di questa parte del film: la Ballata degli Impiccati di Francois Villon, pubblicata postuma nel 1489, da cui trasse ispirazione Fabrizio De Andrè per il brano omonimo (1968) e l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, raccolta di epitaffi che penetrano nel privato degli abitanti di un paesino della provincia americana. Serietà e composta dignità solo dinanzi alla morte: sia che si tratti della morte del nano Cippa al quale Brancaleone rivolge tenere parole di commiato, sia che si tratti della personificazione di essa, quando cioè l’eroe affronta in un ultimo duello la “Mietitrice” che arriva inesorabile a richiedere ciò che le spetta. E infatti lo scudo del cavaliere si rompe come fragile vetro a colpi di ascia e nulla di comico o buffo c’è dinanzi all’imponderabile. Rispetto al primo questo film è più lirico, più accurato nelle invenzioni stilistiche pur riproponendo l’esilarante pastiche linguistico del debutto (il re normanno Boemondo con spiccato accento siciliano si esprime in ottonari in rima baciata), i riferimenti cinematografici e letterari sono altrettanto squisitamente curati anche se, come lo stesso Monicelli afferma, «un sequel può essere superiore ma difficilmente più amato dal pubblico» e infatti esso non riuscì ad eguagliare il successo dell’Armata Brancaleone, forte della novità assoluta che rappresentò nel panorama cinematografico italiano. Entrambi comunque, al di là di qualunque scala gerarchica, rappresentano una fonte interessante su due fronti: per il contesto storico in cui il film è stato realizzato (miracolo economico degli anni ’60 e ricostruzione post-bellica, esilarante ma non priva di amarezza è la scena in cui il “fedele alemanno” credendo morto il condottiero norcino prende subito il comando presentandosi come «duce spietato e ingiusto»), ma soprattutto per la nuova lettura storicamente più realistica e umana del Medioevo. È quindi il film ideale per insegnare ai ragazzi un Medioevo fuori da stereotipi, da equivoci, da leggende, da pregiudizi insieme a una sana dose di allegria e divertimento intelligente, in grado di rendere le lezioni tradizionali più piacevoli e coinvolgenti.
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©2008