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testo di Silvana Filannino |
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L'armata Brancaleone
di Mario Monicelli, 1966
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Se si rimane legati ad un’idea di Medioevo “scolastica”, fatta da cavalieri senza macchia, re, grandi signori e dame virtuose, si rimarrà senza dubbio spiazzati da quello qui rappresentato. Si apprende infatti l’altra, e forse più reale, faccia di quel mondo che nell’immaginario collettivo è stato per secoli terreno fertile di luoghi comuni e di idee antitetiche: si rivela, infatti, popolato da cavalieri improvvisati che hanno fame di terra e soldi, da donne dai dubbi costumi e da monaci fanatici. Abbiamo così un film votato ad una comicità la cui chiave sta anche nella lingua: un mix tra latino magniloquente e volgare ricco di espressioni dialettali umbre e viterbesi che dà come risultato una parlata maccheronica esilarante. Sullo sfondo un’Italia di passaggio dall’alto al basso Medioevo - secondo la periodizzazione più consueta nei manuali - alle prese con le ultime invasioni cosiddette “barbariche”: dalla scena di razzia e distruzione che inaugura il film ai Saraceni che, nelle ultime battute, sono definiti «lo nero periglio che viene da lo mare». Ad essi si aggiunge poi la presenza “legittima” della corte bizantina, i cui costumi sono ricostruiti in maniera eccezionale da Piero Gherardi. Non trascurabile è il particolare del bianco pallore dei loro visi, volto a sottolineare la differente alimentazione dei Bizantini rispetto ai “carnivori” di stirpe germanica. Successo fra i più grandi del nostro cinema, L’armata Brancaleone resta un film unico nel suo genere poiché rappresenta una cesura nel panorama cinematografico italiano, legato alla commedia all’italiana del Dopoguerra. Di questa, infatti, resta la satira ora cupa ora allegra di un’umanità antieroica e piena di difetti, ma cambia l’ambientazione attraverso un salto audace nel passato medievale. Scelta coraggiosa e trasgressiva da parte di Monicelli che decide di fare un film comico (o meglio tragicomico) in costume, pur non avendo a disposizione ampio materiale storico su cui basarsi per la visione che vuole offrire al suo pubblico.
Non si può dunque definirlo film storico, ammesso che un film possa veramente rispecchiare la verità storica, ma è certamente un film che si propone di rappresentare una visione nuova e più realistica dell’età che la storiografia ha chiamato “Medioevo”. Esemplari sono in questo senso le parole del regista in un’intervista rilasciata a un giornalista de “L’Unità” presso la Biblioteca Appia in occasione del sessantesimo anniversario della liberazione di Roma: «Ero stufo di quei tempi medievali raccontati a scuola, con damine e cavalieri belli e incorruttibili. Non è vero niente. Erano venditori di tappeti e cialtroni, scassati e miserabili e si scannavano per castelli e soldi. Ma quale Santo Sepolcro. La civiltà, allora, era dall’altra parte» (Wladimiro Settimelli, in “L’Unità”, 28-05-2004). In poche ma efficaci parole il regista cancella l’alone romantico che per troppo tempo ha contribuito, insieme alle concezioni rinascimentali e illuministiche, a dare una immagine sbagliata del Medioevo: un’immagine che ne esalta ora l’oscurità e barbarie, ora la nobiltà degli ideali e l’irrazionalità. Il Medioevo non è nulla di tutto questo o è forse tutto questo ma senza eccessive demolizioni o idealizzazioni. In questo film abbiamo il rovesciamento del genere eroico. E così il protagonista Brancaleone da Norcia non è il nobile cavaliere dall’armatura lucente che ritroviamo nella letteratura cavalleresca del ciclo bretone o carolingio, ma uno spiantato che tenta di difendere con orgoglio una casta da cui è escluso e di cui non vi è traccia in tutto il film. Affronta mille avversità con la stessa carica folle del Don Chisciotte di Cervantes, è campione di onestà e inettitudine e dà vita a scene dall’effetto comico e soprattutto ironico: come non pensare al fallimentare torneo dei cavalieri o al lungo ed estenuante duello col bizantino a colpi di spada, lancia e ascia in campo di grano?
Il nostro antieroe parte per il feudo di Aurocastro, di cui diventa possessore grazie a una pergamena attestante il possesso del feudo, quella che Gassman alle porte del castello chiama «imperiale investitura». Numerosi sono gli spunti di riflessione sul periodo in questione : l’impero degli Ottoni e il tentativo di “ricostruzione imperiale” che coinvolse l’Italia; il castello come centro di potere esercitato dal più ricco e potente sull’indifeso in cerca di protezione; le frequenti incursioni dei pirati Saraceni a sud e dei Vichinghi a nord (le prime scene rappresentano infatti violenze, stupri e amputazioni compiute da “barbari” ai danni degli abitanti del villaggio). Ammissibile anche per un acuto e preparato spettatore è la convivenza, cronologicamente sfasata, di temi altomedievali e bassomedievali poiché rispecchia la scelta del regista di sacrificare la cronologia degli eventi alla volontà di ornire una panoramica completa e variegata dell’epoca. In questa odissea di umili e perdenti trova spazio anche un tema fondamentale: le crociate, affrontate sempre con l’intento di sfatare miti fin troppo radicati nell’immaginario collettivo. L’ideologia della guerra santa, quella della riconquista del Santo Sepolcro e della lotta contro gli infedeli, viene rappresentata da Monicelli da un punto di vista diverso da quello che ha poi alimentato l’idealizzazione di personaggi come Goffredo di Buglione. Al grido di «Deus vult» parte infatti una combriccola di disperati, peccatori, appestati e lebbrosi che sperano di giungere alla salvezza di corpo e anima attraverso il pellegrinaggio (armato però!) in Terra Santa.
Da non trascurare la guida spirituale di questi pellegrini: lo stravagante monaco Zenone che tenta di superare gli ostacoli e le disavventure che gli si presentano con l’aiuto della propria fede, tuttavia fallendo ogni volta miseramente. Se lo scopo del regista era quello di metterne in risalto il fanatismo cieco e sconsiderato, occorre ammettere che egli l’ha raggiunto perfettamente, non senza una grande dose di sprizzante ironia. Per i costumi e il trucco si è ispirato ai samurai del regista giapponese Akira Kurosawa, la parodia è simile a quella del romanzo cavalleresco Guerin Meschino (periodico satirico pubblicato dal 1882 al 1949), ben riuscita è la sigla di apertura ispirata ai pupi siciliani (che si ispirano alle Chansons de geste): i modelli, le influenze, le fonti di questo film non sono propriamente fonti storiche ma offrono una rilettura della storia unica e inimitabile. Imperdibile. Lo dimostra il restauro della pellicola realizzato su indicazione di Giuseppe Tornatore dall’Associazione Philip Morris Progetto Cinema in collaborazione con Titanus e la Fondazione Mario Cecchi Gori con il Patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
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©2008