Il castello delle ombre a cura di Vito Attolini |
|
Le recensioni di Vito Attolini |
|
Le pacte des loups
Interpreti:
Monica Bellucci, Samuel Le Bihan, Jeremy Renier, Vincent Cassell, Jacques Perrin – Francia, 2001
A metà del diciottesimo secolo, durante il regno di Luigi XV, una serie di delitti particolarmente efferati in una regione della Francia meridionale indusse a pensare che il loro autore fosse una bestia selvaggia piuttosto che un uomo. Per tacitare l’opinione pubblica si allestirono battute di caccia ai lupi che infestavano le campagne e uno di questi venne ucciso per essere mostrato come il “serial killer”. Ma la catena degli omicidi riprese ben presto, sicché la faccenda convinse il Re ad intervenire per mettere fine alla carneficina, mediante l’ ingaggio come detective di uno scienziato nonché imbalsamatore. Il seguito delle sue indagini porterà a scoprire, dietro gli assalti della belva-mostro, un meccanismo innescato da forze politiche ispirate dalle ideologie contrapposte di chi individuava nella strage il segno di una maledizione divina e chi, in nome della trionfante ragione illuminista, ne cercava le cause in più concrete seppure imbarazzanti verità. La collocazione storica della vicenda, realmente accaduta, nel Settecento ha stimolato l’autore del film – grande successo di pubblico in Francia – ad una ricostruzione minuziosa e accurata, suggestiva sul piano scenografico, di ambienti in penombra, solo illuminati, secondo il lontano esempio kubrickiano di Barry Lyndon, dai riverberi delle torce, dalla tenue e diffusa luce delle candele. Si passa dalle miserabili casupole di montagna, dalle fredde selve minacciose nei cui anfratti potrebbe celarsi la belva omicida, al fasto kitsch di una casa di piacere dell’epoca, di cui è ospite d’onore una sontuosa Monica Bellucci. Il risultato è perciò figurativamente pregevole, ma sembra sia stata questa la cura principale del regista, il quale fra l’altro per le scene di lotta, numerose, si è lasciato guidare dal gusto orientaleggiante del kung fu, che molti personaggi mostrano di conoscere bene (fra di loro c’è pure un pellerossa che lo scienziato detective si è portato dal Nuovo Mondo). Una colonna sonora debortante, complice il dolby e il suono stereofonico, amplifica oltre misura con rumori di tonfi, boati nonché con le paurose strida delle temibile bestia tutte le azioni. Si spiega perciò come questa attenzione così assorbente abbia impedito al regista di prestare maggiore cura al racconto del film, particolarmente maldestro, dall’intreccio poco trasparente, soffocato com’è dalla frenesia motoria della macchina da presa.
|
©2003 Vito Attolini; recensione pubblicata in "La Gazzetta del Mezzogiorno"