Il castello delle ombre a cura di Vito Attolini |
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Le recensioni di Vito Attolini |
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Interpreti:
Hristo
Jivkov, Sergio Grammatico, Dessy Tenekedjieva, Nikolaus Moras –
Italia/Francia/Germania, 2001
In
una felice stagione per il nostro cinema (Il partigiano Johnny, La
stanza del figlio, Concorrenza sleale) si iscrive anche quest’ultimo,
bellissimo film di Olmi, realizzato dopo un lungo silenzio, con cui il grande
regista ci ammonisce sul senso di un fare cinema che è confronto ineludibile
con i grandi temi della storia e del presente. Ricalcato su documenti autentici,
Il mestiere delle armi è la cronaca dell’ultima impresa di Giovanni
de’ Medici, meglio noto come Giovanni dalle Bande Nere, il condottiero che
aveva fatto della vita militare il fine della propria esistenza e della fedeltà
ai principi etici che la governano una regola inflessibile di condotta. Il film
pone in contrasto quest’ultima con l’opportunismo e il cinismo delle trame
politiche, espressi dalle ambigue figure del duca d’Este di Ferrara e del duca
Gonzaga di Mantova che, cercando di trarre profitto dalla situazione venutasi a
creare in seguito alla discesa in Italia dei Lanzichenecchi in marcia contro la
Roma del Papa, cedettero di nascosto al loro capitano due “falconetti”,
primi esemplari di quelle armi da fuoco che sconvolsero definitivamente i modi
della guerra fin allora praticati. Grazie ad essi furono sbaragliate di sorpresa
le truppe guidate da Giovanni de’ Medici, che, ferito ad una gamba e dopo la
rudimentale amputazione dell’arto, morì per cancrena l’ultimo giorno di
novembre del 1526. Di questo personaggio – già protagonista di un bel film di stampo agiografico realizzato negli anni Trenta dal regista altoatesino Luis Trenker (I condottieri) – Olmi non nasconde le contraddizioni, la dirittura morale e insieme la spietatezza dell’uomo d’arme. Ce lo ricorda una figura marginale, ma non inessenziale, del film - il prete folle – che sottolinea l’insensatezza propria della guerra: «Dove andate con quelle armi? Voi siete soltanto ombre», urla ai soldati di Giovanni in marcia contro i Lanzichenecchi. E il protagonista del film di Olmi patisce in fondo l’ambivalenza della sua condizione, che ha un riscontro nella sua stessa vita privata, nel tenero amore per la moglie che non gli impedisce di intrecciare una relazione con una nobildonna mantovana. Calato in ombre notturne, Il mestiere delle armi, nella sua bressoniana laconicità, ci suggerisce tutta l’atmosfera di un passato evocato con pochi tratti, nel baluginare della luce riverberata dalle candele, nella rappresentazione di ampie distese innevate percorse dai soldati (il film è stato girato per gli esterni nella pianura padana e in Bulgaria) dove il “mestiere delle armi” è fatica e disagio insostenibili, nel machiavellismo delle corti rinascimentali pronte al tradimento e alle più oscure manovre: mediante cenni allusivi che si congiungono poi ad altri, saldandosi in una logica narrativa coerente. Un mondo da cui la figura di Giovanni emerge in tutta la sua schiva ma innegabile imponenza. Come ha fatto quasi sempre, Olmi fa ricorso ad attori sconosciuti (bulgari, italiani) per conferire verità al mondo che il film descrive in tutta la sua quotidiana concretezza, in gesti e comportamenti che danno la netta impressione della realtà: frutto di una sperimentata maestria, qui ben assecondata dalla musica (Vacchi) e dalla fotografia (Fabio Olmi).
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L'«altra» recensione: di Stefano Latorre
©2003 Vito Attolini; recensione pubblicata in "La Gazzetta del Mezzogiorno"