In tutte le sale italiane è
stato proiettato il film I cavalieri che fecero l'impresa di Pupi Avati. Cast di ottimo livello: Raul
Bova, Fred Murray Abraham e Carlo Delle Piane, attore preferito del regista. La pellicola ha richiesto diciotto miliardi di budget e ventidue settimane di riprese. Location in Umbria, Lazio e soprattutto in Puglia; all'estero in Scozia, Tunisia e Francia. Nella nostra regione, dove è stato anche ambientato parte del viaggio in Grecia, i principali set sono stati
garganici: Peschici, la spiaggia di Manaccora, Vico Garganico, la Foresta Umbra, Santa Maria di Siponto.
Verificate le potenzialità di questi luoghi, Avati si è reso conto di aver trovato la soluzione ideale che cercava. Ha trovato proprio qui chiavi e visioni al di fuori dei soliti contesti: luoghi in cui trionfa la natura, in cui l'uomo non ha lasciato tracce recenti. Dei paesaggi del Gargano lo ha stupito proprio la qualità della luce: i colori del mare e del cielo. Lo ha particolarmente affascinato la Foresta Umbra, «una delle più belle foreste naturali d'Europa», con tagli di luce fantastici fra gli alberi. Questi colori hanno permesso al regista di contestualizzare la storia al massimo, ed allora i luoghi fisici sono divenuti metafisici, come accade nei suoi più bei film della memoria.
Gli eroi, stavolta, non vanno alla ricerca del Santo Graal ma della Sindone: sono impegnati in un'impresa mediterranea. Il set ideale non poteva essere che questo tratto di costa
garganica, porto di dolorose partenze di giovani armati e di pellegrini alla ricerca della salvezza eterna. Sensazioni di un passato ancora fortissime, in un luogo della fede come la Montagna dell’Angelo, dove i crociati si fermavano a pregare il principe delle Celesti Milizie, l’arcangelo Michele, prima di imbarcarsi nel porto di Siponto per la Terrasanta.
Rievocando il diario delle riprese, Avati ha dichiarato di essersi «innamorato» della gente del Gargano. Lo ha emozionato constatare che tutti vivono il cinema ancora come una festa, con quello stupore di cui la “settima arte” ha bisogno. Cosa che non esiste più a Roma, a Milano, a Bologna, dove ormai una troupe cinematografica non suscita più curiosità, ma fastidio. La carenza di maestranze cinematografiche preparate è l'ultima cosa di cui ci si deve preoccupare. E’ capitato che si sono presentati a centinaia per far da comparse, con un calore che è importante quando si gira. Un calore necessario per l'esaltazione di alcuni passaggi del film.
Non sarà un'esperienza isolata. Il regista ha promesso:
«Vorrei assolutamente tornare. Nel prossimo progetto la Puglia non sarà seconda a
nessun'altra, si sono verificate situazioni logistiche molto favorevoli, bisogna solo evitare la stagione turistica, altrimenti diventa assolutamente
complicato». Nel corso di tutte le riprese, Avati ha potuto contare sul sostegno dei responsabili della Soprintendenza alle Belle Arti, ben lieti di suggerire alternative per le location in tutta la regione. Grande disponibilità anche da parte degli enti locali, cui attribuisce
«un ruolo importante nel permettere o nell'inibire».
Antonio Avati, fratello di Pupi e produttore della «DueA» ha affermato che, se gli esiti del film saranno quelli sperati, si potrebbe prevederne la proiezione a Giovinazzo e Peschici, che sono stati i
«quartieri generali del periodo delle riprese».
La trama
Il film, tratto dall'omonimo romanzo del regista bolognese, dopo
Magnificat del '93 segna il ritorno di Pupi Avati al Medioevo. Nel 1271, sullo sfondo della settima crociata e della morte di re Luigi IX a Tunisi, cinque giovani
«senza futuro, sbandati e insoddisfatti, alcuni avidi, altri duri e puri, uno demoniaco, formano un mucchio selvaggio di "eroi della fede"» capaci di ogni traversata e impresa, zigzagando tra torture e duelli, fedeli e infedeli, efferatezze e colpi di fortuna, esaltati e opportunisti, fino all'immolazione suprema. Il loro obiettivo è trovare la Grande Reliquia, il più sacro degli oggetti capace di mettere a tacere ogni antagonismo: la Sacra Sindone, nascosta in una grotta a
Tebe, in Grecia...
Come narra una leggenda, il sacro lino con l’effigie del Cristo, oggi a Torino, fu custodito insieme al Graal da Giuseppe
d'Arimatea, giunto da Costantinopoli prima del saccheggio dei Crociati del 1204. Poi, per 150 anni, della Sindone si persero le tracce; secondo alcuni storici riapparve in Francia, nelle mani di Geoffroy de
Charny.
Grazie a questo soggetto fantasioso e anche al titolo del film, nel suo alludere a cose, eroi e pulsioni di mondana attualità (la centralità dell'Impresa, il Cavaliere), Pupi Avati utilizza l'arma della sorpresa, del controtempo, smarcandosi dall'iconografia ben strutturata, dal tutto tondo storico... Medioevo qui vuol dire imprevisto: ci sono intrighi, torture, inseguimenti e tutto ciò che rese leggendarie le saghe tv di Ivanhoe e Lancillotto.
E come in queste avvincenti storie, il nemico non è più il feroce Saladino, ma il pericoloso "libero arbitrio". Cui si aggiunge l'amor cortese...
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